Erika riaprì gli occhi. Il soggiorno era tetro, buio. Fuori era scesa la notte e una leggera brezza fresca entrava dalla porta finestra aperta. Si tirò su e subito il dolore le morse le tempie: un mal di testa tremendo da sbornia. Aveva bevuto troppo whisky.
Dalla finestra erano entrate delle foglie, che adesso volteggiavano sulla moquette cullate dal vento. Si chinò e ne prese una. Era una morbida foglia di eucalipto dalla forma allungata. L’avvicinò al naso e respirò il profumo dolciastro di menta e miele, fresco e intenso. Ripensò a Mark e i ricordi le scaldarono il cuore. Lui amava l’essenza di eucalipto. Ed Erika gli comprava sempre olii da bagno aromatizzati. Assaporò ancora per qualche secondo il profumo della foglia e poi uscì in giardino. Folate di vento freddo le scompigliarono i capelli. Fra le case in lontananza riusciva a scorgere la sagoma di un grosso eucalipto.
Sentì il rombo di un tuono, poi una goccia di pioggia le bagnò la gamba. Qualche secondo dopo ne sentì un’altra e poi un’altra ancora e poi un ultimo ruggito diede il via al temporale. Erika rimase lì per qualche momento, godendosi la sensazione dell’acqua fresca che le scorreva addosso. Un altro tuono rimbombò fragorosamente mentre la pioggia iniziava a cadere impetuosa, bagnandole la pelle e lavando via tutte le lacrime e il sudore della giornata.
E poi se ne rese conto. La porta del giardino era chiusa quando lei si era seduta sul divano e si era addormentata. Si voltò. Non riusciva a vedere niente dentro casa. Andò in fondo al giardino, afferrò una grossa pietra dall’aiuola che correva lungo il recinto. Rientrò.
Accese la luce. Il salotto era vuoto. Andò all’ingresso e premette l’interruttore, sempre stringendo il sasso. Controllò in bagno. Niente. Aprì la porta della camera. Vuota. Anche quella. Si chinò per guardare sotto il letto. Poi la vide.
Sul suo cuscino era appoggiata una busta color crema. Sopra c’era scritto, con l’inchiostro blu: PER L’ISPETTORE ERIKA FOSTER.
Fissò la lettera per qualche minuto, con il cuore a mille. Stringendo la pietra fra le dita tornò in salotto, chiuse a chiave la porta finestra. Fuori era buio pesto e la pioggia picchiava violentemente contro il vetro. Prese la borsa e cercò un paio di guanti in lattice. Tornò in camera e si avvicinò alla lettera con cautela, sollevandola dal cuscino.
Era stata lì… L’Ombra della notte era stata a casa sua. Portò la lettera in cucina e l’appoggiò sul bancone. La pioggia continuava a battere contro i vetri. Con un coltello aprì accuratamente la busta, tirando fuori un biglietto. Raffigurava un tramonto sul mare. Il sole era un gigantesco tuorlo d’uovo infuocato che bruciava all’orizzonte. Erika fece un respiro profondo e aprì il biglietto. Dentro c’era una poesia. Inchiostro blu, calligrafia ordinata:
Non piangere sulla mia tomba,
io non sono lì e non dormo.
Io sono mille venti che soffiano,
Sono i bagliori del diamante che si riflette sulla neve,
Sono il sole che illumina il grano maturo,
Sono la dolce pioggia dell’autunno.
Quando ti svegli nel mattino quieto
Sono il rapido lanciarsi di uccelli silenziosi
Che si alzano in volo a cerchio.
Sono le morbide stelle che brillano di notte.
Non piangere sulla mia tomba,
io non sono lì e non sono morta.
E poi, sotto la poesia:
Devi lasciarlo andare, Erika…
Da vedova a vedova. L’OMBRA DELLA NOTTE.
Erika lasciò cadere il biglietto sul bancone e fece un passo indietro, sfilandosi i guanti dalle mani tremanti. Fece di nuovo il giro dell’appartamento, assicurandosi che le finestre e le porte fossero chiuse. L’Ombra della notte era entrata in casa sua; era stata là dentro mentre Erika dormiva. Per quanto tempo era rimasta lì? L’aveva guardata dormire?
Erika lanciò uno sguardo al soggiorno e rabbrividì. L’assassina non era entrata solo in casa, no, ora le pareva che fosse entrata anche dentro la sua testa. La poesia era meravigliosa. Parlava al suo cuore, alla sua irreparabile perdita e al suo lutto. Come faceva una psicopatica deviata a capirla tanto profondamente?