Erika arrivò a casa poco dopo le nove e mezza. Quando aprì il portone, trovò Lenka all’ingresso. Aprì la bocca per parlare, ma sua sorella le premette un dito sulle labbra.
«Karolina e Jakub si sono appena addormentati», bisbigliò. «È tardissimo. Dove sei stata?»
«Al lavoro», rispose Erika sottovoce, sfilandosi le scarpe e posando la borsa.
«È tutto okay?»
«Sì, certo».
«Sei uscita alle sette questa mattina!».
Erika si tolse il cappotto.
«È questo l’orario che faccio di solito».
«E Mark cosa ne pensava?»
«Lenka, lasciami entrare in casa almeno!».
«Shhh! Li ho appena fatti addormentare».
Erika si affacciò nel soggiorno. Riusciva a intravedere le testoline addormentate dei suoi nipoti sotto le coperte del divano letto.
«Ho il computer quasi scarico, Lenka. E il caricabatterie è là», mormorò.
«Com’è fatto?»
«In che senso com’è fatto? È un caricabatterie», sibilò Erika, entrando in salotto. Ma la sorella la trattenne.
«No, li sveglierai di sicuro. Karolina è stata strana tutto il giorno, si sono addormentati un momento fa».
«Lenka, mi serve il caricabatterie».
«Hai mangiato?»
«A pranzo».
Lenka incrociò le braccia e sollevò gli occhi al cielo. «Dovresti mangiare, almeno. Ho già cucinato. Fatti una doccia, io ti cerco il caricabatterie».
Erika cominciò a protestare, ma sua sorella la spinse in bagno e chiuse la porta.
Uscita dalla doccia, fu sopraffatta da un delizioso odorino di carne affumicata, patate e sottaceti. Il bip del microonde risuonò nella cucina, e Lenka le portò un piatto fumante di Francúzske Zemiaky, una pietanza a base di patate, uova, cetriolini e salsiccia affumicata tagliata a tocchetti e cotta al forno.
«Oh mio Dio, ha un odore meraviglioso. Proprio come lo preparava la mamma», disse Erika con l’acquolina in bocca.
Andarono in camera sua, adesso occupata dal passeggino di Eva, una pila di pannolini e un comò trasformato in fasciatoio. La foto incorniciata di Mark era stata spinta in un lato. Il suo volto affascinante la osservava con un imperturbabile sorriso. Erika si sedette sul letto e affondò la forchetta nel piatto fumante.
«Wow, è buonissimo. Grazie».
«Sono andata a fare spesa», disse Lenka. «È carino da queste parti, pieno di gente di tutti i tipi: indiani, neri, cinesi. I bambini avevano un po’ paura di tutto… Anche il tuo cortile è carino. Ah, poi abbiamo incontrato un paio di vicini. Una donna che abita al piano di sopra con due figlie piccole. Jakub ha bussato a tutte le porte finché non le ha trovate. Alla fine sono venute qui a giocare».
«Davvero? E come avete fatto a capirvi?»
«Conosco qualche parola di inglese: la madre era davvero gentile. Com’è che si chiama?».
Erika alzò le spalle.
«Ma come? Sei qui da cinque mesi e non conosci neanche i tuoi vicini?»
«Sono molto impegnata», rispose con la bocca piena.
«Che è successo oggi con quel bel tipo? Peterson?»
«Niente, in realtà. Non ne abbiamo parlato».
«Credi che accadrà qualcosa fra voi? È davvero carino».
Erika alzò di nuovo le spalle.
«Potresti invitarlo a cena. Cucinerei io…».
Le lanciò un’occhiataccia e con la bocca piena disse: «Dammi tregua».
Lenka raggiunse il comò e aprì il primo cassetto, mettendoci dentro il materassino sul fasciatoio e diverse coperte.
«È venuto un tipo oggi, per la lettura del contatore, o così mi ha detto. Ero indaffarata con i bambini: c’erano anche le figlie dei vicini a giocare. Ha lasciato una lettera», disse, indicandole un foglio di carta sul davanzale della finestra.
Erika gli diede una controllata e vide che era da parte dell’agenzia immobiliare: la informavano che il contatore del gas andava revisionato.
«Il cibo qui costa davvero un occhio della testa. Tu in genere che cosa compri?»
«Lenka, mi lasci un secondo per respirare? Ho avuto una giornata stressante e mi stai tempestando di domande!».
Sua sorella continuò a sistemare le copertine nel cassetto.
«Che stai facendo?»
«Preparo un letto per Eva».
«Nel comò?».
La piccola Eva nel passeggino cominciò a piangere.
«Ecco, l’hai svegliata», disse Lenka, superando di corsa Erika e prendendo la figlia in braccio. «Buona, buona. Va tutto bene. Shh, shh». Lenka si abbassò la maglietta e provò ad allattare la bimba, che però non fece altro che piangere più forte. «Puoi andare di là a chiudere la porta del soggiorno?».
Erika prese un altro boccone e raggiunse l’ingresso, chiudendo la porta del soggiorno con il piatto ancora in mano. Le urla di Eva si alzarono di un’altra ottava, così chiuse anche la porta della camera. Si sedette di fronte alla porta d’ingresso, appoggiò il piatto a terra e finì di mangiare.
Non si accorse, però, che sopra la sua testa qualcuno aveva messo una cimice, nascosta nel contatore elettrico.
Erano passate da poco le undici e Amanda Baker ronfava sulla sua poltrona. C’era una tazza di tè lasciata a metà sul tavolino di fianco a lei, in mezzo a una pila di immagini stampate e due quaderni. La parete sopra il divano era tappezzata di fogli, tutti scarabocchiati: una fitta ragnatela di scritte nere. In mezzo spuntava un primo piano in formato A4 di Trevor Marksman, insieme ad altre foto che ritraevano Joel Michaels e Bob Jennings. Sul muro opposto, invece, accanto al televisore, c’era un’immagine di Jessica Collins.
Qualcuno bussò piano, disturbando il suo sonno leggero. Si alzò a fatica dalla poltrona e raggiunse la finestra. C’era Crawford fuori, con il viso paonazzo e madido di sudore. Sollevò un’anta e una folata di vento gelido s’intrufolò dentro casa.
«Ce li ho», disse, controllando che la strada alle sue spalle fosse deserta.
«Li hai presi tutti?», chiese Amanda.
Crawford annuì e dondolò sui piedi. «Posso entrare?»
«È tardi, devo dormire. Domani c’è il funerale di Jessica Collins», disse Amanda.
Crawford sbirciò nella stanza alle sue spalle e vide un vestito nero appeso in fondo al soggiorno e pronto per essere indossato. «Che fai, ci vai?»
«Sì», rispose Amanda. E tese la mano aperta.
«Fammi entrare, solo per un bicchiere veloce… È stata una giornata tremenda».
«Non bevo più, e non voglio che tu metta a rischio la mia sobrietà», rispose, con la mano ancora tesa.
«Mi prendi in giro! Hai smesso?»
«Da tre giorni, per ora».
Crawford tirò fuori una busta dalla tasca interna della giacca e gliela passò.
«Grazie», gli disse Amanda, prendendola subito. Poi chiuse la finestra e le tende.
Crawford rimase lì impalato per un istante, a fissare la tenda immobile. E poi arrancò di nuovo fino alla sua macchina.