Capitolo 59

Ancora sveglia in camera di Erika, Lenka fissava il soffitto cullata dal ticchettio della pioggia. Eva, al suo fianco nel letto, ronfava e si muoveva nel sonno. Allungò una mano per controllare che stesse bene, accarezzandole i capelli morbidi e sottili.

Riviveva la lite con Erika di poco prima, un dolore che si rifiutava di andarsene dalla sua testa. L’aveva aspettata in piedi fino a dopo mezzanotte, seduta nel salone insieme ai bambini addormentati. Poi aveva provato a chiamarla al cellulare. Ma la suoneria attutita arrivava dal cappotto appeso alla sedia. Lenka aveva rovistato nelle tasche, ma il telefono scarico si era spento, e al buio non riusciva a trovare il caricabatterie.

Si tirò a sedere e osservò Jakub e Karolina. Si sentiva davvero lontana da casa. Sapeva solo che un amico di Erika faceva il medico legale, ma non riusciva a ricordare il suo nome, e che il padre di Mark si chiamava Edward Foster, però viveva nei pressi di Manchester. Era davvero preoccupata per sua sorella: non era da lei comportarsi in modo così incosciente, andandosene senza dire dove.

Erika dormiva con il capo appoggiato sul petto di Peterson, godendosi il tepore del suo corpo e lasciandosi cullare dal ritmo placido del cuore. Il ragazzo si mosse nel sonno, stringendola più forte.

Era sconvolta dal misto di eccitazione e senso di colpa scaturito dall’aver fatto sesso. Per ben due volte. La prima era stata intensa e veloce e avevano ricominciato quasi subito, con più calma e sensualità. Si erano addormentati poco dopo, ma lei si era svegliata più o meno un’ora prima e da allora la sua testa non aveva più smesso di lavorare. Era sveglia e fissava l’orologio in camera di Peterson.

Le 3:04 del mattino. Si accucciò accanto a lui, chiuse gli occhi e si sforzò di dormire.

Lenka si agitava nel letto, prese il telefono sul comodino e vide che erano le 3:05. Si girò dall’altro lato per controllare Eva. La piccola respirava sommessamente, con il pollice infilato in bocca.

Un rumore nell’altra stanza, un lieve scricchiolio di plastica. Le si gelò il cuore. Il suono si ripeté di nuovo, seguito da un leggero tintinnio, come se fosse caduto qualcosa sulla moquette del soggiorno. Scese dal letto all’istante e si guardò velocemente intorno: c’era solo l’aspirapolvere in un angolo, con il tubo staccato e la barra di metallo in un angolo. L’afferrò e andò in soggiorno.

La porta finestra del giardino era aperta e per terra notò la plastica rimossa per forzare la serratura. Le tende sventolavano spinte dalla brezza che entrava dalla fessura. Si voltò con la barra di ferro stretta in mano. Fortunatamente, i bambini dormivano sotto le coperte.

Uno scricchiolio, e un paio di mani grosse e forti le strinsero il collo. Senza pensare dimenò la barra di ferro sopra la spalla destra. Il colpo andò a segno, qualcuno urlò. I bambini si svegliarono di colpo e iniziarono a gridare, mentre Lenka si voltava alla svelta, ritrovandosi di fronte alla sagoma incombente di un uomo alto e grosso che le si scagliava addosso. Affondò di nuovo la barra di ferro, colpendolo all’inguine. Non troppo forte, ma lui si piegò dal dolore dandole il tempo di fare un passo indietro e caricare un altro colpo. Lo prese alla testa, una, due volte. L’uomo cadde sul pavimento, e lei continuò a colpirlo ancora e ancora, per altre tre volte, finché non rimase a terra immobile.

Jakub e Karolina urlavano e piangevano. Lenka gli ordinò di andare a prendere Eva. Non riusciva a distinguere i lineamenti dell’uomo a terra. Era grosso, e aveva un sacco di capelli neri e ricci. Senza togliergli gli occhi di dosso, afferrò il ceppo dei coltelli dalla cucina e il telefono di casa, infilandolo in tasca. Camminò all’indietro verso il bagno, sempre con la barra in mano.

«Dentro», ordinò ai bambini, che erano appena usciti dalla camera da letto. Karolina teneva in braccio Eva, che miracolosamente dormiva ancora. Entrarono tutti nel bagno e Lenka chiuse a chiave la porta, bloccandola con una sedia – ma era troppo bassa per impedire alla maniglia di girare.

«Va tutto bene», disse a Karolina e Jakub che se ne stavano rannicchiati come due animali impauriti nella vasca. «Andrà tutto bene. Karolina, ho bisogno che mi aiuti e che ti occupi di Eva», disse. La bambina annuì fra i singhiozzi.

Lenka fissò il telefono, rendendosi conto di non avere nessun numero da chiamare: non aveva idea di come contattare la polizia di Londra e non avrebbe neanche saputo spiegare in inglese che avevano bisogno di aiuto. L’unico numero che ricordava a memoria era quello di Marek.

Si sedette con la schiena contro la porta e digitò il numero slovacco di suo marito. Jakub era pallido e la tirava per una manica.

«Che c’è?», gli chiese.

«Mamma, la chiave non funziona», mormorò bianco in faccia e tremante. «La zia Erika ha detto che era rotta…».

Non appena il telefono cominciò a squillare, Lenka sentì un cigolio e sollevò lo sguardo. La maniglia stava girando, la porta lentamente si apriva alle sue spalle.

Dalla fessura spuntò una mano imponente, e stavolta Lenka urlò a squarciagola insieme ai bambini.

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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