Non appena la conferenza stampa terminò e le telecamere si spensero, Erika si alzò in piedi. Il cuore le galoppava selvaggiamente in petto. I giornalisti e i fotografi si stavano accalcando all’uscita. Simon si voltò a guardare Marsh. I suoi occhi marroni scintillavano di furia.
«A che cazzo di gioco state giocando?», sibilò. «Pensavo fossimo d’accordo su come doveva funzionare questa faccenda». Lanciò un’occhiata disperata ai giornalisti che se ne andavano.
Marsh e Sparks si alzarono in piedi. «Detective Foster, dobbiamo parlare, subito», disse Marsh. Erika fece un bel respiro e scese dal palco, ignorando le voci che la chiamavano alle sue spalle mentre attraversava la sala conferenze, verso le porte sul fondo. Le oltrepassò, trovò una scala antincendio e scese giù per tre piani, ritrovandosi in una stradina secondaria.
Si fermò a riprendere fiato, la pioggia le cadeva sulla pelle sudata. Sapeva che ci sarebbero state delle conseguenze per quello che aveva appena fatto, ma in fin dei conti aveva sempre agito seguendo le sue convinzioni, no? Ed era convinta di avere fatto la cosa giusta. Aveva fatto bene, soprattutto per Andrea, che non aveva possibilità di difendersi.
Non si era nemmeno resa conto che stesse piovendo. Cominciò a camminare, unendosi alla folla allegra e vivace che percorreva Oxford Street, chiusa nel suo bozzolo di pensieri. Il suo istinto, la sicurezza che l’aveva spinta… tutto cominciava a vacillare. Forse sarebbe stato meglio restare e affrontare di petto la situazione. Senza di lei gli altri avrebbero discusso di ciò che aveva fatto, sarebbero giunti alle proprie conclusioni. Avrebbero preso delle decisioni senza di lei, avrebbero stabilito cosa fare adesso.
Erika esitò e si fermò. La pioggia scrosciava sul marciapiede e la gente sfilava tutto intorno a lei, le teste chine sotto cappucci e ombrelli. Imprecarono quando trovarono bloccato l’angusto passaggio che conduceva agli autobus e alla metro. Erano nel bel mezzo dell’ora di punta. Erika aveva bisogno di fermarsi a riflettere. Ma se fosse tornata indietro avrebbe dato un’impressione di debolezza. Riprese a camminare insieme alla folla.
Dietro di lei, qualche metro più indietro, una figura la seguiva. La stessa figura che l’aveva osservata fumare dietro la finestra. Questa volta non era vestita di nero, ma riusciva lo stesso a confondersi tra i cappucci e gli ombrelli della gente. La folla pareva gonfiarsi e rallentare man mano che si avvicinava alla stazione della metropolitana di Marble Arch, e la figura che pedinava Erika si ritrovò proprio accanto a lei. C’erano solo due o tre persone tra loro.
Erika era una dei pochi a non avere il cappuccio. Camminava a testa china, con il colletto della giacca rialzato.
È un problema. È andata in quel cazzo di pub e ha parlato con certa gente. Sa molto più di quanto credessi. Quell’aria angosciata e disperata era solo una maschera? Finché non è cominciata la conferenza pensavo che fosse un catorcio da buttare. L’ombra malconcia di una poliziotta che una volta era stata brillante.
Adesso la figura era vicinissima a Erika. Tra di loro c’era solo un corpulento uomo d’affari con un impermeabile beige fradicio d’acqua. Erika si sistemò meglio il colletto della giacca, tirandolo fino a sfiorare i capelli sulla nuca.
È triste e sola. In lutto. Potrebbe avere tendenze suicide. Molte persone ce l’hanno. Mi piacerebbe proprio farle una chiamata, a questa stronzetta pelle e ossa, e sorprenderla a letto. Stringere quella gola rinsecchita e guardare i suoi occhi annerirsi. Ma prima c’è qualcun altro a cui devo fare visita…
La folla aveva raggiunto la stazione di Bond Street e si era fermata. Erika si spostò più avanti per ripararsi sotto l’ampia pensilina mentre aspettava che la gente riprendesse ad avanzare. La figura si accostò a lei tra la folla e le infilò una busta bianca nella tasca della giacca. Qualche secondo più tardi il tappo all’ingresso della stazione si liberò. La figura si allontanò da Erika e proseguì mescolandosi alla folla: una persona come tante, ansiosa di arrivare in fretta a destinazione.