Capitolo 18

Erano appena passate le cinque quando tornarono alla stazione di Lewisham Row. La squadra della centrale operativa era piuttosto abbacchiata quando entrarono, ma poi tutte le teste si drizzarono di scatto dalle scrivanie quando si sparse l’odore di caffè.

«Prendete una tazza, ci sono anche le ciambelle», disse Erika. Sulla via del ritorno si erano fermati da Starbucks. Gli agenti si stiracchiarono e si scostarono dalle scrivanie. Crane, che stava riguardando le immagini delle telecamere di sicurezza, si avvicinò.

«Lei è un mito, capo. Del caffè decente!», disse strofinandosi gli occhi.

«Spero che abbiate ricavato qualche buona notizia dalle telecamere di London Road», disse Erika speranzosa, porgendogli la busta con le ciambelle.

«Abbiamo fatto dei controlli incrociati con gli itinerari e gli orari degli autobus e abbiamo richiesto ai trasporti pubblici i nastri delle telecamere di tutti i mezzi che sono passati su London Road, davanti al museo o alla stazione, la sera in cui Andrea è scomparsa. E poi adesso anche un sacco di taxi hanno le telecamere, stiamo cercando di rintracciarli, ma non avremo i video degli autobus prima di domattina». La mano di Crane esitò sopra la busta con le ciambelle.

«Coraggio», disse Erika. Lui affondò la mano. «Dateci dentro, il tempo passa. Immagino abbiate saputo della scomparsa della barista, Kristina».

Gli agenti annuirono, mentre masticavano le ciambelle e bevevano il caffè.

«Il cellulare e il computer di Andrea? Avete scoperto niente di interessante?», chiese Erika.

«No. Be’, abbiamo trovato la maggior parte delle foto che avevamo già visto sul suo profilo Facebook, e delle partite infinite a Candy Crush Saga. A quanto pare aveva un’ossessione per quel gioco. In pratica usava il computer solo per i giochi e per iTunes. L’iPhone trovato sulla scena del crimine è praticamente vuoto. Niente foto né video, a malapena qualche messaggio».

Il sovrintendente Marsh si affacciò nella centrale operativa. «Detective Foster, possiamo parlare?»

«Sissignore. Moss, Peterson, aggiornate gli altri su quello che abbiamo trovato sotto il letto di Andrea, per piacere», chiese Erika. Poi si infilò in bocca ciò che rimaneva della ciambella, uscì e seguì Marsh nel suo ufficio. Lo aggiornò al volo sulla scatola trovata sotto il letto, sullo scontrino e sulla barista del Glue Pot scomparsa.

Quando ebbe terminato Marsh fissò il buio della notte fuori dalla finestra. «Non strapazzare troppo la squadra. D’accordo, Foster?».

Pareva un po’ più rilassato. Erika si chiese se fosse per i titoli dei giornali, che erano interessati più alla tragedia della morte di Andrea che ai progressi della polizia. Almeno per quel giorno si erano concentrati sulla bellissima ragazza la cui vita era stata stroncata troppo presto.

«L’ufficio stampa ha fatto un ottimo lavoro. Ha coadiuvato e indirizzato i media», disse Marsh, indovinando il corso dei pensieri di Erika.

«È così che si dice adesso? Indirizzare i media?», chiese Erika sogghignando.

«Guarda, ci sono anche due righe su di te», disse lui leggendo ad alta voce: «A dirigere il caso c’è la detective Erika Foster, esperta agente che ha assicurato alla giustizia il pluriomicida Barry Paton. Ha inoltre ricevuto un encomio per l’alto numero di condanne per delitti d’onore raggiunto all’interno della comunità musulmana di Manchester… Hanno usato una bella foto: ci siamo noi al processo Paton».

«Perché già che c’era non ha dato anche il mio indirizzo?», sbottò Erika. «Sono mesi che non ricevo lettere da Barry Paton. Ma mi ha mandato le sue congratulazioni per essere riuscita a farmi ammazzare il marito».

Seguì un momento di silenzio.

«Mi dispiace», disse Marsh. «Credevo che potesse farti piacere, non ci ho pensato. Mi dispiace, Erika».

«Va tutto bene, signore. È stata una lunga giornata».

«Io sono stato tormentato dal dipartimento risorse umane. Dicono che non hai ancora fornito un indirizzo», disse Marsh, cambiando argomento.

«Adesso sbriga anche le commissioni per conto delle risorse umane?»

«E devi anche farti vedere da un medico. Ieri sera sei stata esposta a fluidi di origine umana», aggiunse Marsh indicando il cerotto ormai malconcio sul dorso della mano di Erika. Per la prima volta ripensò a quello che aveva detto Ivy, sul fatto che il bambino avesse l’HIV. Si stupì di constatare che non le importava molto.

«Non ho avuto tempo, signore».

«Di fare cosa? Di andare dal dottore o di trovare un posto in cui stare?»

«Andrò da un dottore», disse Erika.

«E dove abiti?», chiese Marsh. «Dobbiamo saperlo nel caso dovessimo contattarti».

«Avete il mio cellulare…».

«Erika. Dove abiti?».

Seguì un’imbarazzante pausa.

«Al momento ancora da nessuna parte».

«E cosa hai fatto ieri notte allora?»

«Ho lavorato».

«Stai seguendo un importante caso di omicidio. Datti una regolata. Siamo solo al secondo giorno. In che condizioni pensi che sarai al settimo?»

«Non ci arriveremo al settimo giorno. Farò tutto il possibile», disse Erika in tono di sfida.

Marsh le porse un biglietto da visita. «Questo è un ambulatorio, non è richiesta prenotazione. E poi c’è l’appartamento che Marcie ha ereditato dai suoi genitori. Gli inquilini se ne sono andati da poco. È vicino alla stazione, se vuoi risparmiarti tutte le scartoffie di un affitto. Passa a casa mia più tardi a prendere le chiavi se ti interessa».

«Okay, grazie signore. Prima però devo sbrigare un po’ di lavoro qui».

«Se possibile passa prima delle nove. Cerco di andare a letto presto durante la settimana».

Quando Erika tornò alla centrale operativa fu accolta dall’agente Singh, che teneva in mano un pezzo di carta con aria trionfante.

«La segretaria di Simon Douglas-Brown ha appena mandato via fax il contratto del vecchio telefono di Andrea. Quello che aveva perso a giugno. Abbiamo fatto richiesta per i tabulati, dovremmo averli domattina».

«Direi che questo vale almeno un’altra ciambella», disse Erika scuotendo la borsa e offrendola in giro.

«E lo scontrino trovato nella scatola sotto il letto di Andrea viene dal supermercato Costcutter, vicino al London Bridge», disse Crane. «Sopra ci sono data e ora. Ero al telefono con il gestore poco fa, gli ho chiesto di controllare i video della sicurezza. Li conserva solo per quattro mesi perciò siamo a rischio, ma incrociamo le dita».

«Splendido», disse Erika. Crane sorrise e prese una ciambella.

«Non dovremmo tenerne almeno una per il detective Sparks?», chiese Moss.

«Non saprei. Mi pare già abbastanza dolce di suo», sogghignò Erika, strappando una risata ai colleghi. Adesso si sentiva a suo agio nella centrale operativa – l’atmosfera, il cameratismo – ma sapeva anche che la sua squadra lavorava da ore, perciò decise che per quel giorno poteva bastare.

«Buonanotte, capo», la salutarono tutti mentre prendevano cappotti e borse. La centrale si svuotò pian piano finché non rimase solo Erika.

Alzò il telefono e compose il numero che le aveva dato Marsh. Una voce registrata la informò che l’ambulatorio era chiuso e che avrebbe riaperto alle sette della mattina seguente.

Erika riattaccò e tirò via il cerotto dalla mano, facendo una smorfia quando si staccò dalla pelle. La ferita stava guarendo in fretta, lasciando solo dei lividi leggeri e la piccola curva dei minuscoli segni dei denti.

Gettò il cerotto nel cestino e tornò vicino alle lavagne in fondo alla stanza. Il turbine di eccitazione che aveva provato poco prima si era esaurito. Si sentiva esausta. Dietro la nuca sentiva gonfiarsi un principio di mal di testa. Rimase a fissare gli indizi: mappe e fotografie; Andrea viva nella foto della patente; Andrea morta, con gli occhi spalancati e capelli e foglie appiccicati alle guance. Di solito Erika riusciva in fretta a dare una direzione precisa a un caso, ma questa storia non faceva altro che ampliarsi a dismisura, con elementi contraddittori che spuntavano e si moltiplicavano come le cellule di un tumore.

Aveva bisogno di dormire. Si rese conto che per farlo doveva trovare un letto.

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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