Erika era assorta nei suoi pensieri quando il telefono di casa cominciò a squillare, interrompendo lo scroscio regolare della pioggia e spaventandola a morte. Non avrebbe saputo dire da quanto tempo stava fissando quella precisa scrittura sulla cartolina. Riprese il telefono dal pavimento e rispose.
«Erika, ti prego, aiutami, è morto!», disse una voce che fece fatica a riconoscere.
«Isaac, sei tu?»
«Sì! Erika, devi aiutarmi. Stephen… Io sono appena arrivato a casa sua e l’ho trovato… Oddio… Dio, c’è sangue, sangue dappertutto…».
«Hai chiamato la polizia?», chiese Erika.
«No, non sapevo che fare… È steso sul letto, nudo…».
«Ascoltami, Isaac. Devi chiamare il 999».
«Erika… È morto e ha una busta di plastica in testa».
Ormai pioveva a dirotto quando Erika arrivò a Bowery Lane Estate. Mentre i tergicristalli della macchina correvano all’impazzata per contrastare il diluvio, le sirene blu delle volanti della polizia sembravano diluirsi nei rivoli d’acqua. Parcheggiò dietro uno dei veicoli di supporto e scese dalla macchina avanzando sotto la pioggia inclemente.
«Signora, sposti l’auto, non può parcheggiare qui!», le urlò un agente che le stava correndo incontro. Erika gli mostrò il distintivo.
«Sono l’ispettore capo Foster, rispondo alla chiamata», mentì.
«È lei il responsabile del caso?», chiese l’agente riparandosi con una mano dalla pioggia. Le gocce colpivano l’impermeabile sopra il casco con un ticchettio feroce.
«Ne saprò di più quando avrò visionato la scena del crimine», rispose. L’agente la fece passare. Erika superò il cordone della polizia e vide le volanti parcheggiate sul marciapiede. Un’ambulanza illuminava le facciate degli appartamenti di blu e di rosso.
Sollevò lo sguardo e notò che le luci di molte finestre erano accese. Un agente urlava ai residenti di tornare dentro. Delle ragazzine in pigiama venivano richiamate e scortate al sicuro dalla madre.
Mostrò il distintivo all’agente fermo di fronte al nastro.
«Lei non è sulla lista», gridò il poliziotto sovrastando il rumore della pioggia e delle sirene.
«Faccio parte del team di intervento. Sono l’ispettore capo Foster», urlò, mostrando di nuovo il distintivo. L’agente annuì, le fece firmare un foglio e sollevò il nastro per farla passare.
Il portone era aperto. Erika imboccò una rampa di scale. Il cemento era grigio e puntellato da macchie che si erano accumulate nel corso di lunghi anni. Raggiunse l’appartamento di Stephen Linley, dove una gran folla di tecnici lavorava alacremente. Mostrò il distintivo e subito le diedero tuta, mascherina e copriscarpe. Erika si cambiò velocemente nel corridoio. Ogni centimetro del minuscolo appartamento veniva fotografato e coperto di polvere per le impronte. Gli agenti continuavano a lavorare in silenzio, senza prestarle la minima attenzione. Non la guardarono neppure quando salì la scala a chiocciola. L’angoscia la attanagliava. Si sentivano solo dei leggeri bisbigli e il debole ticchettio della macchina fotografica.
La stanza era ridotta peggio di quanto avesse immaginato. Stephen era completamente nudo sul materasso bianco, ora impregnato di sangue. Anche il muro candido alle sue spalle era macchiato di rosso.
C’erano agenti ovunque – uno in particolare catturò l’attenzione di Erika, per la sua altezza imponente. Al suo fianco c’era un collega decisamente più basso e grasso che aveva aperto un cassetto del comò. Ne stava tirando fuori vibratori, arnesi di pelle e quelle che sembravano delle maschere fetish. Ne teneva in mano una nera di PVC.
«Roba da pervertiti», disse.
«Gesù, non mi meraviglio che abbia fatto una brutta fine», rispose l’agente più alto. A Erika si gelò il sangue nelle vene quando riconobbe la voce.
«Foster, che ci fai qui?», chiese l’ispettore capo Sparks.
Il grassone al suo fianco infilò la maschera in una busta per le prove e poi si voltò. Aveva sopracciglia lunghe e ispide sopra occhi duri e inflessibili.
«Io… Mi hanno chiamato», rispose Erika.
«Chi? La prima squadra che ha risposto era della City of London Police. Hanno chiamato i miei ragazzi», disse Sparks. «Lui è il sovrintendente Nickson».
Sparks e Nickson la fissarono da dietro le mascherine. La macchina fotografica scattò due volte, i flash erano accecanti.
«Siamo piuttosto lontani dalla sua zona di pertinenza, non le pare?», aggiunse Nickson. Aveva una voce ostile, determinata.
«Io… ehm… Ho ricevuto una chiamata dal medico legale Isaac Strong», rispose Erika, balbettando un po’.
«Sono io il medico legale. Duncan Masters», disse un uomo basso con due occhi intensi, chino al lavoro in un angolo. «Il dottor Strong sta rispondendo alle domande degli agenti. Non è qui come medico legale».
«Salve, dottor Masters», rispose Erika. «Ho lavorato ai due casi di soffocamento di Jack Hart e Gregory Munro. Sono qui in veste ufficiale. Credo che questo omicidio possa essere stato perpetrato dalla stessa persona».
«E cosa glielo fa pensare? È appena arrivata sulla mia scena del crimine», disse il dottor Masters.
«Quest’uomo è stato colpito a morte con un posacenere di marmo e ha l’ano pieno di liquido seminale», rispose Sparks. «A me sembra uno dei nostri casi. Andiamo avanti noi». Chiamò un agente. «Puoi scortare questa donna fino a un veicolo? Deve essere interrogata riguardo alla sua incongrua apparizione sulla scena del crimine».
«Sono l’ispettore capo Foster e…», protestò Erika prima di sentire una mano che si stringeva sul suo braccio. «D’accordo, d’accordo. Non c’è bisogno di trascinarmi fuori. La vedo la porta: esco da sola».
Un agente con la tuta blu della scientifica la scortò fuori. Anche se era completamente coperta a parte gli occhi, Erika era certa che tutti in quella stanza avessero capito quanto si sentiva umiliata.