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Dan Cormorant fu rapido ed efficiente, bisogna ammetterlo. Scomparve nel Grand Foyer e quarantacinque secondi dopo ricomparve con Theodore Vance al fianco. Per il momento sembrava che stesse filando tutto liscio.
Poi però, prima di arrivare alla porta, Vance si fermò e si voltò a dire qualcosa all’agente del Secret Service. Cormorant si mise in tasca il microfono. C’era qualcosa che non andava.
Angela Riordan, al mio fianco, appoggiò una mano sull’auricolare per sentire meglio. «Dan, che cosa fai?»
Cormorant non rispose.
«Cormorant, muoviti! Dan! Porta subito qui Montana!» ordinò Angela Riordan.
Fece segno all’agente Ridge di entrare nel salone, ma lo richiamò indietro vedendo che Vance si voltava spontaneamente e cominciava ad avvicinarsi. In quel momento guardava verso di noi.
Era lui Zeus? Secondo Hannah Willis, sì. E io le credevo.
Cormorant lo seguiva, un passo più indietro di lui, mentre altri tre uomini del servizio di sicurezza camminavano uno davanti e due ai lati del First Gentleman. Uno degli agenti di guardia alla porta la spalancò e uscì, per poi tenerla aperta per Vance.
Avvenne tutto in un batter d’occhi. Fu uno di quegli istanti che passano rapidissimi, ma restano impressi nella memoria come una fotografia e non si dimenticano più.
Cormorant era quasi nascosto dietro Vance. Vidi solo un lembo della sua giacca che si sollevava.
Un attimo dopo presi la Glock, ma era già troppo tardi.
Cormorant sollevò il braccio con la .357 in pugno e sparò in testa a Theodore Vance, che fece un volo in avanti e atterrò a faccia in giù sulla terrazza.
Scoppiò il finimondo: in mezzo allo stupore, al terrore, all’incredulità generale, Cormorant fu raggiunto dai colpi sparati simultaneamente dagli agenti più vicini a lui. Dopo pochi secondi lo vidi a terra. Tutto intorno era il caos.
Centinaia di persone strillavano e cercavano di raggiungere le uscite. Le tende cominciarono subito a chiudersi, isolando la scena della sparatoria.
Feci appena in tempo a vedere un gruppetto compatto di agenti del Secret Service che correvano – immaginai insieme al presidente – verso il più vicino dei rifugi predisposti per le emergenze. Mi chiesi se il presidente sapeva che suo marito era morto.
Angela Riordan gridava alla radio, cercando di farsi sentire in mezzo a quel baccano: «C’è stata una sparatoria! Montana è ferito. Ripeto, Montana è ferito! Abbiamo bisogno di un’ambulanza attrezzata per la rianimazione alla River Terrace. Lato nord. Subito!»
Gli uomini della scorta di Vance lo avevano immediatamente circondato, disponendosi su due cerchi, uno vicino a terra e l’altro rivolto all’infuori, con le armi spianate. Mahoney e io ci disponemmo sul perimetro esterno.
I giornalisti si stavano già precipitando, avidi di notizie, c’erano poliziotti dappertutto, si sentivano ululare le sirene per la strada e tutti urlavano contemporaneamente.
Era troppo presto per le teorie ufficiali, ma ero convinto di sapere che cosa era successo. Cormorant era un veterano del Secret Service e, a suo modo, un patriota. Aveva aspettato che Teddy Vance fosse uscito e gli aveva sparato un colpo mortale sapendo che sarebbe stato ucciso a sua volta. Era stato un suicidio, oltre che un assassinio: l’ultimo atto di una sanguinosa operazione di insabbiamento e, dal suo punto di vista, un tentativo estremo di limitare i danni nell’interesse del presidente degli Stati Uniti.