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Il suo vero nome era Johnny Tucci, ma i ragazzi del quartiere, nella parte meridionale di Philadelphia, lo chiamavano Johnny Tic, per via dell’occhio che gli si contraeva spasmodicamente quando era nervoso, e cioè quasi sempre.

Dopo quello che era successo quella notte, i ragazzi di Philadelphia potevano andare a farsi fottere: adesso per Johnny il gioco si era fatto duro. Ma lui era un duro. E aveva il «pacco», no?

Era un lavoretto semplice, ma gli avrebbe reso un sacco di soldi, perché era solo e doveva assumersi tutta la responsabilità. Aveva già ritirato il «pacco». Aveva avuto un po’ di paura, ma se l’era cavata più che bene.

Nessuno lo diceva esplicitamente, ma quando cominci a fare quel tipo di consegne, vuol dire che sai qualcosa sulla Famiglia e la Famiglia sa qualcosa su di te. In altre parole, si crea un legame. Da quella sera in poi, Johnny non avrebbe più dovuto fare i salti mortali o accontentarsi delle briciole nel quartiere. No, quello era il primo giorno del resto della sua vita, come dicevano.

E quindi era carico. E anche un po’ nervoso.

Continuava a venirgli in mente la raccomandazione che gli aveva fatto lo zio Eddie: Non ti bruciare quest’occasione, Tic. Mi sono esposto per te. Come se gli stesse facendo chissà che favore. Forse sì, gli stava facendo un favore, ma che bisogno c’era di farglielo pesare così tanto?

Alzò il volume dell’autoradio. La musica country che suonavano da quelle parti faceva schifo, ma almeno lo distraeva da quei pensieri. In quel momento trasmettevano una vecchia canzone di Charlie Daniels, The Devil Went Down to Georgia. Sapeva persino le parole. Ma non riuscì lo stesso a smettere di pensare alle raccomandazioni dello zio Eddie.

Non ti bruciare quest’occasione, Tic.

Mi sono esposto per te.

Oh, cazzo!

Vide i lampeggianti azzurri nello specchietto retrovisore. Sembravano spuntati dal nulla. Fino a tre secondi prima gli sembrava di avere la I-95 tutta per lui.

Evidente che, non era così.

Cominciò a strizzare involontariamente l’occhio destro.

Premette sul pedale dell’acceleratore: forse sarebbe riuscito a squagliarsela. Poi gli venne in mente che era su una merdosa Dodge rubata nel parcheggio di un Motel 6 a Essington. Porca Eva, dovevo andare al Marriott e pigliarmi un’auto giapponese.

Non era detto che avessero già denunciato il furto della Dodge, però. Era possibile che il proprietario stesse ancora dormendo nel motel. Magari se la sarebbe cavata con una multa e nessuno avrebbe mai saputo niente.

Ma lui non era un uomo fortunato.

I poliziotti impiegarono un sacco a scendere dalla macchina, che è sempre un brutto segno: vuol dire che stanno controllando la targa e tutto il resto. Quando finalmente arrivarono da lui e si piazzarono uno da una parte della Dodge e l’altro dall’altra, gli occhi di Johnny sembravano impazziti.

Cercò di darsi un contegno. «Buonasera. C’è qualche...?»

Quello dalla sua parte, alto e con un forte accento del Sud, aprì la portiera. «Sta’ zitto e scendi.»

Ci misero poco o niente a trovare il «pacco». Controllarono i sedili davanti e dietro, aprirono il bagagliaio, tolsero la gomma di scorta e lo trovarono.

«Porca troia!» esclamò uno di loro, puntando la torcia nel bagagliaio. L’altro ebbe un conato di vomito. «Cosa cazzo hai fatto?»

Johnny non gli rispose. Si era già messo a correre.

Il segno del male
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