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Mentre uscivamo dalla Beltway e imboccavamo Eisenhower Avenue, Mahoney comunicò all’Hoover Building che avevamo cambiato destinazione. Si stava facendo buio, ma le strade erano ancora piene di auto di pendolari. Mi chiesi vagamente quando erano finiti i tempi in cui si lavorava soltanto dalle nove alle cinque.
Percorso un paio di chilometri su Eisenhower Avenue, arrivammo a una fila di palazzine di quattro piani tutte uguali.
Dalla strada principale partiva un viale di accesso sormontato da un’insegna che diceva «Avalon Apartments-Cameron Court».
Il GPS ci guidò nel piccolo labirinto di strade del complesso residenziale, che era lussuoso e dotato di tutti i comfort. Secondo Mahoney e il suo portatile, gli affitti arrivavano a tremilacinquecento dollari al mese.
«Sai, mia zia vive in un posto come questo in Florida, a Vero Beach. Il regolamento condominiale dice che non si possono tenere più di due animali, ma lei ha quattro cagnolini identici e li porta fuori due alla volta.»
Lo ascoltai distrattamente finché non arrivammo all’isolato di Nicholson. «Ehi, Ned. Guarda là!» Una cinquantina di metri più avanti una berlina blu stava uscendo da un garage. «È quello il palazzo di Nicholson?»
Mahoney alzò la testa e chiuse il computer. «Potrebbe essere. Andiamo a vedere.»
Nel frattempo l’auto si era immessa nella strada e veniva verso di noi. Era targata Washington D.C. A bordo c’erano quattro persone, due uomini davanti e dietro due passeggeri che non si vedevano bene.
Quando ci incrociammo, mi voltai a guardare e per un attimo incontrai lo sguardo di Tony Nicholson.