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Ci furono altre vittime. Chiunque sapesse qualcosa era in pericolo.
Accadde a tremila chilometri dalla Virginia, sull’isola di Trinidad, nella casa azzurra alla periferia della capitale, Port of Spain, dove Esther Walcott era cresciuta. E dove si era rifugiata dopo la retata nel club di Tony Nicholson.
Mamma e papà l’avevano accolta a braccia aperte e, soprattutto, non le avevano fatto domande sulla vita che aveva abbandonato di colpo in America.
In due anni di lavoro nel club in Virginia – dove si occupava dell’amministrazione e del reclutamento – aveva messo da parte un bel gruzzolo. Il suo progetto era continuare a risparmiare per poi mettersi in proprio e aprire un negozio di parrucchiera e manicure, magari in Westmall Road, come aveva sempre sognato da piccola. Sembrava il modo migliore per ricominciare daccapo e rifarsi una vita.
Ma quando, la terza notte che passava a casa, si svegliò con la mano di uno sconosciuto che le tappava la bocca, e quando sentì l’accento americano, Esther capì che non era fuggita abbastanza lontano.
«Non fiatare o t’ammazzo tutta la famiglia. Tutti. Dal primo all’ultimo. Mi hai capito, Esther? Fa’ di sì con la testa.»
Vincendo l’impulso praticamente irresistibile di mettersi a urlare, Esther riuscì ad annuire senza fare rumore.
«Brava. Vedo che sei una ragazza sveglia. Come hai dimostrato al club, peraltro. Dove hai messo la valigia?» Esther indicò l’armadio. «Okay. Ora alzati. Piano. Piano.»
La fece sedere sul letto e, prima di lasciarla andare, le incollò un pezzo di nastro metallizzato sulla bocca. Fuori c’erano venticinque gradi, ma Esther tremava come se la temperatura fosse sotto zero. Il tocco delle mani ruvide dell’uomo sulla pancia e sul seno la faceva sentire praticamente nuda, vulnerabile e tristissima.
Quando vide una striscia di luce filtrare da sotto la porta, ebbe un tuffo al cuore: un moto di speranza, poi di terrore. Stava arrivando qualcuno.
L’intruso si voltò verso di lei nella semioscurità e le fece cenno di tacere, ricordandole che ne andava della vita di tutta la sua famiglia.
Un attimo dopo si sentì bussare piano. «Esther?» Era sua madre. Fu più forte di lei: sollevò una mano, si strappò il nastro dalla bocca e gridò: «Scappa, mamma! Scappa! C’è un uomo armato!»
Ma invece di scappare, la madre spalancò la porta della camera. Per un attimo Esther vide la sua sagoma corpulenta proiettata contro la luce che proveniva dal corridoio.
Poi sentì un suono attutito, non un normale colpo di arma da fuoco, e Miranda Walcott si portò le mani al petto e crollò a terra senza dire una parola.
Esther si mise a urlare. Non sarebbe riuscita a smettere nemmeno volendo. Udì la voce di suo padre, che stava arrivando di corsa.
«Esther? Miranda?»
Lo sconosciuto si mosse per andare verso la porta ed Esther gli si buttò addosso, cercando di afferrarlo per le caviglie e farlo cadere per terra.
Ma fu lei a cadere, lunga distesa sul pavimento. Di nuovo, udì quel terribile suono attutito.
Poi, un tonfo. Il suo povero papà era stramazzato contro la parete.
Ai margini del suo campo visivo danzavano scintille bianche e la stanza pareva ondeggiare, quando Esther cercò di arrampicarsi di nuovo sul letto e batté con i pugni sulla zanzariera tentando di sfondarla e scappare dalla finestra.
Il salto fino ai cespugli di salvia sottostanti non era eccessivo ed Esther era già più fuori che dentro, quando mani robuste la afferrarono per le caviglie e la tirarono su, facendola strisciare dolorosamente sul davanzale di legno.
La ragazza lanciò ancora un grido, sapendo che i vicini di casa l’avrebbero sentita, ma anche che ormai era troppo tardi.
Tutti quelli che sapevano qualcosa sarebbero stati uccisi.
E anche quelli che potevano essere di intralcio.