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Fu di nuovo un incubo: i soccorritori in casa, la corsa in ambulanza, le domande al pronto soccorso. Poi l’attesa, lunghissima e straziante.

Rimasi con Nana tutto il giorno e tutta la notte. Era sopravvissuta all’attacco cardiaco: i medici non dicevano altro.

L’avevano attaccata a un ventilatore per aiutarla a respirare e aveva un tubo incerottato alla bocca. Le avevano messo un ossipulsimetro al dito e una flebo nel braccio. Dal petto le partivano una serie di fili collegati a un monitor accanto al letto, con le linee dell’elettrocardiogramma che pulsavano ritmicamente e da una parte mi rassicuravano, ma dall’altra mi innervosivano.

Ci fu un gran viavai di amici e parenti. Arrivarono zia Tia con alcuni miei cugini, Sampson e Billie, Bree e i ragazzi, che però non vennero ammessi nel reparto. Meglio così: avevano già visto fin troppo a casa, prima che l’ambulanza la portasse via.

Ci furono anche alcuni colloqui «indispensabili» con diversi operatori sanitari che mi parlarono del modulo da firmare per evitare l’accanimento terapeutico e mi prospettarono varie possibilità di hospice, oltre a chiedermi se Nana fosse religiosa e volesse ricevere l’estrema unzione, nel caso. Nel caso? Non volevo nemmeno pensarci.

Dopo l’orario di visita nessuno cercò di mandarmi via e io apprezzai. Rimasi seduto al capezzale di Nana, con gli avambracci posati sul letto. A volte chiudevo gli occhi, a volte pregavo.

Finalmente, nel cuore della notte, la sentii muovere. Spostò la mano sotto le coperte e per me fu come se tutte le preghiere che avevo recitato fossero state esaudite in un istante.

Poi Nana si mosse un altro po’. E subito dopo aprì lentamente gli occhi.

Le infermiere mi avevano raccomandato, se si fosse svegliata durante la notte, di stare calmo e parlare sottovoce. Non fu facile seguire i loro consigli.

Le posai la mano sulla guancia e dopo un po’ lei si accorse di me.

«Non dire niente, Nana. Non discutere. Hai un tubo in gola che ti aiuta a respirare.»

Mosse gli occhi, si guardò intorno e poi mi fissò.

«Ti sei sentita male sulla veranda. Ti ricordi?»

Nana accennò un sì con la testa. Accennò anche un sorriso.

«Adesso chiamo l’infermiera e le chiedo se ti possono staccare da questa macchina, okay?» le chiesi. Stavo già per premere il pulsante, quando vidi che aveva richiuso gli occhi. Dovetti guardare il monitor per accertarmi che si fosse solo addormentata.

Le linee gialle, azzurre e verdi stavano facendo il loro dovere.

«Okay, aspettiamo domani mattina» dissi. Non perché pensassi che mi sentisse, ma perché avevo bisogno di dire qualcosa.

Sperando che Nana ci fosse ancora, l’indomani mattina.

Il segno del male
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