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La porta della baracca non era chiusa a chiave. Appena sollevai il chiavistello, fummo investiti da un odore inconfondibile e disgustoso, un misto di dolciastro e di putrido, come di frutta e carne lasciate marcire insieme.
La stanza era semivuota. C’erano pochissimi mobili: una branda di ferro, una stufa a legna, un lungo tavolo rustico.
L’unica sedia era occupata da Remy Williams, morto.
Una scena da graphic novel: mandibola cascante, una parte del volto maciullata da uno sparo. Aveva il Remington ancora nella mano sinistra, con la canna che puntava verso il pavimento di assi di pino.
L’altra mano gli ricadeva sul fianco e sull’avambraccio sembrava essere scritto qualcosa. Scritto? Ma come?
«Cosa diavolo...?» disse Sampson e, coprendosi la bocca e il naso con il braccio, si chinò a guardare più da vicino. «No, non dirmi che...»
Quando puntai la mia Maglite sul cadavere, vidi che la scritta era incisa nella carne.
Ai piedi di Williams c’era un coltello da caccia con una lama da sei pollici macchiata dello stesso marrone rossastro della pelle.
Le lettere si distinguevano benissimo:
SORRY.
Mi dispiace.