51

«Non capisco, Tony. Perché non mi puoi dire almeno dove stiamo andando? Chiedo troppo?»

La verità era che Nicholson non aveva lo stomaco per uccidere a sangue freddo, e l’aveva capito solo quel pomeriggio. Aveva sempre creduto che, in caso di necessità, non si sarebbe fatto scrupoli a soffocare Charlotte con un cuscino o a metterle nel caffè qualcosa di letale. Invece no, non ce la faceva. E ormai era troppo tardi per farla ammazzare da qualcun altro.

Infilò le ultime cose nella sacca, mentre Charlotte brontolava, dall’altra parte del letto. La valigia Louis Vuitton che le aveva tirato fuori era ancora vuota e lui stava perdendo la pazienza. Aveva voglia di prenderla a sberle, ma non sarebbe servito a niente.

«Cara.» Fece fatica a dirlo. «Ti devi fidare di me. Dobbiamo prendere l’aereo. Ti spiegherò tutto quando saremo partiti. Adesso, per favore, fai la valigia, così andiamo. Forza, tesoro.» Prima che perda la pazienza e ti strozzi con le mie mani.

«È per colpa di quei due che sono venuti l’altra notte, vero? Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava. Gli devi dei soldi? È per questo?»

«Maledizione, Charlotte, mi ascolti? Non siamo al sicuro, qui. Né io né tu. A questo punto, la prospettiva migliore che abbiamo è finire in prigione. La migliore, capisci? Più tempo passa, più rischi corriamo.»

Dipende solo da chi ci becca per primo. Lo pensò, ma non lo disse.

«Noi? Perché parli al plurale? Io non ho fatto niente a nessuno.»

Nicholson girò intorno al letto, prese una bracciata di vestiti dall’armadio e li gettò dentro la valigia, con le grucce ancora attaccate.

Poi prese il portagioie di pelle rossa che le aveva comprato a Firenze una vita prima, quando era ancora giovane e innamorato e ragionava con l’uccello.

«Andiamo via. Subito.»

Charlotte lo seguì, perché restare sola la spaventava più di tutto il resto. Nicholson contava proprio su questo. Non erano neanche sulla porta, che Charlotte scoppiò a piangere. Nicholson la sentì emettere un verso a metà fra il gemito e l’urlo, si voltò e la vide per terra, con il mascara che le colava dagli occhi. Se ne metteva troppo, Nicholson l’aveva sempre detto. Sembrava una puttana. E lui di puttane se ne intendeva.

«Ho troppa paura, Tony. Tremo tutta! Non vedi? Non vedi proprio niente, a parte le tue esigenze. Perché fai così?»

Nicholson aprì la bocca per dire qualcosa di carino e tranquillizzarla, ma gli uscì detto: «Sei troppo stupida, sai?»

Mollò per terra i bagagli, la prese per un braccio e la strattonò con forza, a costo di lussarle la spalla. Charlotte si ritrasse, scalciando e gridando. Lui la trascinò verso la porta. Doveva farla salire in macchina, tutto lì. Se poi le fosse scoppiato un aneurisma, non gliene sarebbe fregato un accidente. Non gliene fregava più niente, di quell’oca.

Ma a quel punto sentì il primo colpo contro la porta.

Qualcosa – perché non era una persona – l’aveva colpita da fuori, facendola crepare nel mezzo. Nicholson guardò dalla finestra e capì che era un ariete. Capì anche che era troppo tardi per salvare anche solo se stesso.

Il secondo colpo, cattivo e potente, fece saltare serrature e catenaccio come fossero stati di burro. La porta esplose.

Il segno del male
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