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Se lì per lì mi rallegrai del fatto che qualcosa si stava muovendo, trascorsi il resto della giornata a studiare i casi degli scomparsi, riempiendomi di sgomento. Sampson mi raggiunse nel pomeriggio e insieme andammo a parlare con i familiari dei ragazzi spariti nel nulla.

Quando arrivammo dai genitori di Timothy O’Neill, mi sembrava che l’unico risultato che avevamo ottenuto fosse quello di amareggiare ulteriormente quelle persone.

Gli O’Neill vivevano in una casa in stile coloniale a Spring Valley. Per quella zona era abbastanza modesta, ma era comunque un immobile da sette cifre. Come tanti nel District of Columbia, anche gli O’Neill gravitavano intorno alla pubblica amministrazione. Mi diedero l’impressione di essere una «buona famiglia irlandese» e mi chiesi cosa ci fosse dietro la sparizione del loro figlio.

«Vogliamo molto bene a Timothy» esordì la madre. «Sappiamo cosa è scritto nei vostri verbali e probabilmente pensate che siamo ingenui, ma noi nutriamo per nostro figlio un amore incondizionato.»

Eravamo nel salotto, accanto a un pianoforte a mezza coda su cui erano posate numerose fotografie. La signora O’Neill ne prese una di Timothy, lo stesso ritratto che avevo appeso nel mio studio, in versione leggermente più grande. Mi augurai che Timothy fosse semplicemente andato a stare lontano da Washington, per il bene dei suoi genitori.

«Diceva che lavorava come barista?» domandò Sampson.

«A noi così risultava» rispose la signora O’Neill. «Stava mettendo da parte i soldi per andare a stare per conto suo.»

«E dove lavorava?»

I due genitori si scambiarono un’occhiata. Alla signora O’Neill si riempirono gli occhi di lacrime. «È molto brutto, ce ne rendiamo conto» disse. «Ma non lo sappiamo. Sappiamo solo che era un club privato e che Timothy aveva dovuto firmare un patto di riservatezza. Non ci ha mai voluto dire niente per questo. Sosteneva che era meglio così.»

Intervenne il padre di Timothy. «Noi all’epoca pensavamo che esagerasse, ma adesso... non so più cosa credere.»

Secondo me, lo sapeva benissimo, ma non era mio compito aiutarlo ad accettare la dura realtà. I signori O’Neill erano in pena per il loro figlio: lungi da me rendere ancora più difficile quel colloquio.

Alla fine, chiesi di poter vedere la stanza di Timothy.

Seguimmo i signori O’Neill oltre la cucina e la lavanderia, in quelle che una volta dovevano essere state le stanze della servitù. Vi si accedeva attraverso un ingresso separato, sul retro, e comprendevano una camera e un bagno. Era un piccolo appartamento a sé stante.

«Non abbiamo toccato nulla» disse subito il signor O’Neill. Poi aggiunse, in tono affettuoso: «E infatti è ancora tutto in disordine».

La mia prima reazione fu pensare che nel disordine è più facile nascondere ciò che non si vuol far trovare. C’era roba dappertutto, anche per terra: evidentemente, Timothy per certe cose era ancora un bambino.

C’erano vestiti ovunque: sul letto, sulla poltrona e persino sulla scrivania. Si trattava perlopiù di jeans e T-shirt, ma c’erano anche capi più eleganti e una collezione di completi e giacche, più tre giubbotti di pelle, appesi nell’armadio. Notai che due erano Polo, uno Hermès.

Fu lì che trovai l’ago nel pagliaio. Sampson e io cercavamo fra gli oggetti sparsi per la camera di Timothy da un quarto d’ora, quando tirai fuori dalla tasca di una giacca un foglietto.

Vi era scritta sopra una stringa di lettere, come quelle che avevo visto sull’agenda di Caroline. Era: AFIOZMBHCP.

Mostrai a Sampson il foglio. «Guarda un po’ qua, John.»

La signora O’Neill tornò subito dentro la camera. Evidentemente era rimasta tutto il tempo sulla porta. «Avete trovato qualcosa? Cosa?»

«Potrebbe essere un numero di telefono» dissi. «Immagino che il cellulare di Timothy non sia qui.»

«Macché. C’era sempre attaccato, giorno e notte. Ma i ragazzi ormai sono tutti così.»

Provò a sorridere e io anche, ma non fu facile. Quel foglietto significava che le probabilità che la signora O’Neill rivedesse suo figlio erano praticamente nulle.

Il segno del male
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