96

Eravamo a due ore di macchina dal confine occidentale della contea di Louisa, che si trovava a un’oretta dal club di Nicholson, in direzione sud. Le due località formavano un comodo triangolo con il punto della I-95 dove Johnny Tucci era stato fermato con i resti di mia nipote nel bagagliaio della macchina. Forse stavamo cominciando a fare progressi.

Seguendo le vaghe indicazioni dateci da Yarrow sbagliammo strada varie volte prima di trovare il bungalow, in fondo a uno sterrato lungo la Route 33. Dopo qualche chilometro nel bosco, la strada sembrava finire, interrotta da una fila di massi che dovevano essere stati portati lì a mano e che noi togliemmo senza troppe difficoltà.

Da lì in poi la strada si riduceva a due solchi lasciati dagli pneumatici che si perdevano nella boscaglia. Procedemmo lentamente per circa mezz’ora prima di trovare tracce di presenza umana. Remy Williams si era scelto un posto isolatissimo, con il Lake Anna State Park a est come unico vicino di casa.

Lo sterrato portava sul retro di una rudimentale costruzione a un solo piano, circondata da abeti e apparentemente non del tutto finita: il tetto era di lamiera e le pareti ancora di compensato grigio e pannelli di materiale isolante.

«Splendida casa» borbottò a mezza voce Sampson. «Sarà mica l’Unabomber della East Coast?»

La casa di Remy Williams era più grande della famosa baracca di Ted Kaczynski, ma la sensazione era la stessa: sembrava l’abitazione di un pazzo.

La facciata aveva un portico, sotto il quale c’erano due finestrelle buie. Lo spiazzo davanti alla casa, grande abbastanza per parcheggiare diversi automezzi, era vuoto. Sembrava proprio che non ci fosse nessuno. In fondo era quello che speravo.

Avevo fatto il giro quasi completo della baracca quando vidi, su un lato, un trituratore per la legna.

«Sampson?»

«L’ho visto.»

Era un vecchio modello industriale, con due ruote e il gancio da traino appoggiato su un blocchetto di cemento. La vernice era quasi del tutto scrostata, ma sulla carrozzeria restava qualche chiazza del tipico verde e giallo dei macchinari John Deere. Accanto al trituratore c’era un telone azzurro piegato e tenuto fermo da una tanica di benzina da dieci litri.

Scesi dalla macchina lasciando il motore acceso e tirai fuori la Glock.

«C’è qualcuno?» gridai poco convinto.

Nessuna risposta. Si sentivano soltanto il rumore del vento, qualche uccellino che cinguettava e il ronzio del motore della mia macchina.

Sampson e io ci avvicinammo al portico dai due lati opposti per controllare prima le finestre e poi la porta.

Quando guardai dentro, mi ci volle qualche secondo per abituarmi all’oscurità, poi intravidi un uomo seduto su una sedia contro il muro in fondo. Era troppo buio per distinguere i particolari. Non capii nemmeno se era vivo o morto. Non ne ero certo. Non ancora.

«Cazzo» mormorò Sampson.

Mi aveva tolto la parola di bocca.

Il segno del male
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