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Alle undici e mezzo, nel costoso ed esclusivo Blacksmith Farms la festa aveva raggiunto il culmine. Le suite per gli ospiti erano tutte occupate e così le salette per i massaggi, la cantina e persino il mezzanino. Era sesso sfrenato: donne con uomini, donne con donne, uomini con uomini, triangoli e orge di ogni tipo.
Per l’addio al celibato di quella sera era stato prenotato tutto il club: cinque escort di sesso maschile, trentacinque di sesso femminile, ventuno invitati arrapatissimi per una spesa complessiva di centocinquantamila dollari, già bonificata sul conto cifrato del club.
L’organizzatore della festa, testimone di nozze, era ben noto a Nicholson: si chiamava Temple Suiter ed era socio di uno degli studi legali più prestigiosi e ammanicati di Washington, che annoverava fra i propri clienti il Family Research Council, la famiglia reale dell’Arabia Saudita e diversi membri della precedente amministrazione della Casa Bianca.
Nicholson, come al solito, aveva fatto bene i compiti.
Benjamin Painter, il festeggiato, stava per sposare la rampolla di una famiglia fra le più altolocate di Washington. Si apprestava a chiamare «papà» il senatore anziano della Virginia e «mamma» una delle più chiacchierate vittime della chirurgia estetica della capitale. Si vociferava che volesse provare a farsi eleggere al Senato lui stesso. Tutto ciò lo rendeva piuttosto prezioso agli occhi di Nicholson.
In quel momento Painter era spaparanzato su una poltrona nella suite A, in compagnia di due delle ragazze più giovani, più carine e meno preoccupanti della festa, Sasha e Liz, che si stavano spogliando lentamente a vicenda sul letto mentre una terza, Ana, accarezzava il festeggiato cui non aveva ancora levato i boxer firmati. Le tre ragazze dimostravano una quindicina di anni, ma erano tutte maggiorenni. Di poco, ma erano maggiorenni. Per l’esattezza, avevano diciannove anni.
Nicholson posò il dito sul touchpad per regolare l’immagine. Le telecamere erano wireless, PTZ, comandate a distanza, delle dimensioni di gomme da cancellare. Quella che Nicholson stava regolando era nascosta nel rilevatore di fumo della stanza.
Era corredata di un microfono grosso come la testa di un fiammifero, mimetizzato nel lampadario direttamente sopra il grande letto su cui Sasha sorrideva civettuola, seduta a cavalcioni su Liz.
Erano tutte e due nude, a parte i gioielli, finti ma dall’aspetto costosissimo. Gli abitini da sera neri erano ammucchiati per terra.
Sasha allungò una mano per aprire il cassetto del comodino, da cui estrasse un grosso vibratore color carne. Lo sollevò perché Benjamin Painter lo vedesse. Painter sgranò gli occhi.
«Vuoi che glielo metta dentro?» chiese Sasha, pudicamente. «Mi piacerebbe tanto.»
«D’accordo» rispose Ben, con lo stesso tono che avrebbe usato con una segretaria dello studio di suo padre. «Preparamela. E tu» disse poi mettendo una mano sulla testa di Ana, che era in ginocchio davanti a lui. «Vai piano, okay? Chi va piano va sano e va lontano, Ana.»
«Ma certo, Benjamin. Mi piace troppo per farlo finire in fretta.»
Se Painter stava dando a Nicholson materiale eccellente su cui lavorare, il suo vecchio amico e compagno di università, Suiter, gli stava praticamente firmando un assegno in bianco.
Era con due delle asiatiche più graziose, Maya e Justine, nella spa. Maya era sdraiata sulla piattaforma piastrellata, sulla schiena, con le gambe per aria, e Suiter se la stava stantuffando alla grande. La ragazza sembrava apprezzare, ma Nicholson aveva dei dubbi sul fatto che non recitasse, visto che sapeva che Maya e Justine vivevano assieme e si erano appena sposate in Massachusetts.
Justine gli stava fornendo immagini che valevano parecchio. Aggrappata a una sbarra sul soffitto, sopra a Suiter, teneva le gambe lievemente piegate e lasciava che la natura seguisse il suo corso lungo le spalle e la schiena del suo cliente.
Suiter ansimava, ormai vicino all’orgasmo. «Così... Così... Brava! Mi fai morire!»
Nicholson alzò gli occhi al cielo, disgustato, e azzerò l’audio. Non aveva nessun bisogno di sentire i gemiti di quell’idiota. Nel giro di due o tre giorni, avrebbe selezionato i trenta secondi migliori e li avrebbe spediti a Suiter in ufficio. In genere le riprese frontali, con qualche parolina scelta, sortivano l’effetto desiderato.
Se quegli uomini erano disposti a pagare per farsi sculacciare il sabato sera, o anche soltanto per trombarsi una donna che non gli chiedesse a cosa stavano pensando subito dopo, Tony Nicholson sapeva che erano sempre pronti a pagare pur di tenere nascosti i loro sporchi segreti.
Sempre. Tutti. Tranne Zeus.