72

Jannie fu più discreta. Entrò nella stanza con cautela, incerta su come comportarsi, e rimase in fondo, vicino alla porta, finché non le feci cenno di avvicinarsi.

«Vieni qui, Janelle. Voglio farvi vedere una cosa interessante.»

Ali mi teneva per mano e Jannie venne a vedere allungando il collo da dietro le mie spalle. C’era poco spazio accanto al letto, ma mi faceva piacere sentire i miei figli vicini, la famiglia unita, piena di speranza ma pronta a qualsiasi evenienza.

Tirai fuori dal portafoglio una foto. Quella che avevo trovato in casa di Caroline e che da allora mi portavo sempre dietro.

«Dunque: questa è Nana Mama, questo è vostro zio Blake e questo sono io. Nel 1976, incredibile ma vero.»

«Papà! Ma eri ridicolo!» esclamò Jannie indicando il cappello con il nastro bianco, rosso e blu sui lunghi ricci che portavo negli anni Settanta. «Che cos’è?»

«Una paglietta. Era il bicentenario dell’indipendenza degli Stati Uniti e quel giorno almeno un milione di persone aveva un cappello così in testa. Solo pochissimi lo portavano con disinvoltura, però.»

«Peccato che tu non fossi uno di loro» commentò Jannie in tono tra l’imbarazzato e l’impietosito per il look di suo padre.

«Comunque sia, eravamo alla parata» ripresi. «Cinque minuti dopo che fu scattata questa foto, passò un grande carro dei Redskins che distribuiva piccoli palloni da calcio. Blake e io ci precipitammo a cercare di prenderne uno e corremmo dietro al carro per un bel tratto, senza pensare alla povera nonna. Sapete come andò a finire?»

Mi ero messo a raccontare quell’episodio soprattutto per i ragazzi, ma anche per Nana, come se noi fossimo seduti al tavolo della cucina e lei ai fornelli ad ascoltarci senza farsene accorgere. Mi pareva quasi di vederla, intenta a rimescolare qualcosa di buono nella pentola, pensando a una bella risposta da darmi.

«Nana ci trovò soltanto alcune ore dopo e a quel punto si arrabbiò come voi non l’avete mai vista. Non avete idea di quanto era furibonda.»

Ali guardò la nonna, cercando di immaginare la scena. «Quanto? Diccelo.»

«Be’, vi ricordate quella volta che se ne andò di casa e ci lasciò soli per un po’?»

«Sì.»

«Quella volta là era più arrabbiata ancora.» Diedi una leggera gomitata ad Ali e ripresi: «E vi ricordate quando qualcuno spinse l’aspirapolvere giù dalle scale rigando tutti i gradini?»

Ali stette al gioco e spalancò la bocca. «Era più arrabbiata di così?»

«Dieci volte di più, caro mio.»

«E che cosa fece, papà?» intervenne Jannie.

La verità era che Nana ci diede uno schiaffone per uno, ma poi ci baciò e abbracciò e, tornando a casa, ci comprò due stecchi con lo zucchero filato bianco, rosso e blu, grossi come la nostra testa ricciuta. Era sempre severa ma affettuosa, almeno a quei tempi, e non le portavo rancore per le occasionali strigliate. All’epoca si usava così: scapaccioni e coccole. Con me, sortivano l’effetto desiderato.

Le presi la mano e la guardai, così fragile e immobile nel letto, quasi fosse l’ombra della donna che era stata e a cui avevo voluto così bene da prima ancora di essere in grado di ricordarlo.

«Ci facesti passare la voglia di scappare, vero, Regina?»

Due secondi prima ridevo e scherzavo, ma di colpo mi ritrovai commosso e, credo, in preda più o meno alle stesse emozioni che doveva aver provato Nana quel giorno sul Mall prima di ritrovarci sani e salvi.

Ero spaventato e disperato, forse anche perché ero spossato a furia di cercare di non pensare al peggio. La cosa che desideravo di più era che la nostra famigliola rimanesse unita, come era sempre stata e come era giusto che continuasse a essere.

Dubitavo però che ciò fosse possibile e non ero ancora pronto ad affrontare la realtà. Forse, non lo sarei mai stato.

Resta con noi, Nana. Non te ne andare.

Il segno del male
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