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L’indomani mattina presto, troppo presto per la maggior parte degli altri investigatori che lavoravano su quel caso, mi misi all’opera. Avevo un elenco di nominativi presi dalle agende che avevamo trovato nella cassetta di sicurezza di Nicholson, e Sampson aveva verificato e confermato gli indirizzi di ventidue escort che avevano partecipato ad almeno una serata nel club della Virginia.
Alle otto in punto mandai cinque coppie di agenti a cercarle a casa.
Dal momento che si trattava di nottambule, mi pareva che fosse l’ora più indicata per trovarle in casa e interrogarle. Volevo parlare con quelle ragazze al più presto, senza dar loro il tempo di confrontarsi e di mettersi d’accordo. Era un’indagine di per sé già difficile e delicatissima e non volevo ulteriori complicazioni.
Sampson chiese l’aiuto della nostra amica Mary Ann Pontano, della squadra Antiprostituzione, che ci mise a disposizione l’ufficio che la sua unità divideva con la Narcotici in Third Street. Mary Ann accettò inoltre di presenziare ad alcuni dei colloqui. Volevo che ci fosse almeno una donna di razza bianca dalla nostra parte del tavolo, dal momento che la maggior parte delle escort erano bianche.
Alle dieci del mattino avevano risposto all’appello quindici su ventidue.
Le sistemai in tutte le sale riunioni, le salette per gli interrogatori, le stanze e i corridoi liberi, facendomi odiare dai colleghi della Narcotici. Pazienza. Mi dispiaceva rompergli le scatole, ma non potevo fare diversamente.
Negli uffici di Third Street regnava il caos, nonostante i quattro agenti incaricati di sorvegliare la situazione ed evitare che qualcuna tagliasse la corda. Altri agenti andarono a cercare le escort che non avevano trovato al primo giro. Naturalmente c’era sempre la possibilità che non le trovassimo mai più. I colloqui richiesero parecchio tempo. Le ragazze non si fidavano di noi, non a torto. Non risparmiammo loro i particolari sull’uccisione di Caroline, né tacemmo la possibilità che ci fossero state altre vittime. Volevo che si rendessero conto dei pericoli che avevano corso lavorando per Nicholson, o per chiunque altro in quel giro. Ero pronto a tutto, pur di indurle a parlare.
Alcune riconobbero subito Caroline nella foto e ci dissero che quando lavorava al club – non molto spesso – si faceva chiamare Nicole. Dissero che era «gentile» e la descrissero come «una tipa tranquilla». Insomma, non dissero nulla che potesse servirmi a scoprire chi l’aveva uccisa.
All’ora di pranzo, invece di mangiare andai a fare due passi nella speranza di chiarirmi le idee. Fu inutile. Stavo sprecando il mio tempo? Stavamo seguendo la pista sbagliata? Avremmo fatto meglio a lasciar andare le ragazze e a impiegare il pomeriggio in maniera più proficua?
Era il problema con cui mi scontravo sempre: non riuscivo mai a capire quando era il momento di smettere, perché smettere era un po’ una resa. Non ero ancora pronto ad arrendermi, e non solo perché il ricordo dei «resti» di Caroline era ancora troppo vivo nella mia mente: temevo che mia nipote non fosse l’unica ad aver fatto quella fine raccapricciante.
Stavo tornando verso Third Street, più stanco e angosciato di prima, quando mi squillò il telefono. Sul display lessi il nome di Mary Ann Pontano.
«Sono fuori» risposi. «Sto cercando di snebbiarmi il cervello, sempre che sia possibile. Sono andato a fare due passi.»
«L’unico posto dove non ti ho cercato» commentò lei. «Sarà meglio che tu venga a parlare con questa Lauren, Alex.»
Allungai il passo. «Quella con i capelli rossi e il cappotto di shearling?»
«Esatto. Le è tornata la memoria e ha un paio di cosette interessanti da dire su una delle ragazze che mancano all’appello, Katherine Tennancour.»