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Partii in direzione del Potomac ed entrai in città a sirena spiegata. La spensi solo quando parcheggiai davanti al St. Anthony. Da quando avevo sentito i messaggi di Bree, non avevo smesso di tormentarmi. Come era potuto succedere? Quella mattina Nana era seduta nel letto, mi aveva parlato, sembrava in via di guarigione...
Arrivato al sesto piano, la prima faccia nota che vidi uscendo dall’ascensore fu quella di Jannie. Era su una sedia di plastica davanti all’ingresso del reparto di terapia intensiva, seduta sul bordo. Appena mi vide, mi corse incontro e mi abbracciò.
«Nana è in coma, papà. Non sanno se si sveglierà o no.»
«Sst. Lo so, lo so. Tranquilla, sono qui.» La sentii, da rigida che era, afflosciarsi tra le mie braccia e cominciare a piangere. Mia figlia era così forte e nello stesso tempo così fragile. Proprio come Nana, non potei fare a meno di pensare mentre cercavo di consolarla. «L’hai vista?» le chiesi.
Fece di sì con la testa. «Solo un minuto. Poi l’infermiera mi ha detto di aspettare qui fuori.»
«Vieni con me» le dissi prendendola per mano. «Ho bisogno di te.»
Trovammo Bree seduta accanto al letto di Nana, sulla stessa sedia su cui avevo passato la notte io. Si alzò e ci abbracciò entrambi.
«Per fortuna sei arrivato, finalmente» mi bisbigliò.
«Cosa è successo?» le chiesi, bisbigliando a mia volta. Per non farmi sentire da Nana, credo.
«La funzionalità renale è gravemente alterata, Alex. Le stanno facendo la dialisi e le danno di nuovo l’idralazina, i betabloccanti...»
Udivo a malapena quello che diceva e stentavo a capire. Mi tremavano le gambe e mi girava la testa.
Ero assolutamente impreparato al peggioramento di Nana. Avevano ricominciato la ventilazione artificiale, e questa volta con una tracheostomia. Aveva una sonda nel naso e adesso era anche in dialisi. Ma la cosa peggiore era la faccia, emaciata e contratta, sofferente. Mi aspettavo di trovarla che dormiva, invece stava molto peggio.
Mi avvicinai al letto e mi sedetti sul bordo. «Sono Alex. Sono qui. Sono Alex, nonna.»
Mi sembrava di essere separato da lei da una spessa lastra di vetro. Le parlavo, la toccavo, la vedevo, ma era come se fosse irraggiungibile. Era la sensazione più frustrante che avessi mai provato in vita mia. E temevo di sapere che cosa ci aspettava.
Di solito reagisco bene nei momenti di crisi – fa parte del mio mestiere – ma quel giorno mi disperai. Quando Jannie mi venne vicino, non cercai neppure di nascondere le lacrime che mi colavano lungo le guance.
Non piangevo soltanto per Nana. Con lei se ne sarebbe andato un pezzo della nostra famiglia.
E mentre eravamo lì a vegliarla, una lacrima le scese sulla guancia.
«Nana!» esclamammo subito, in coro. Ma lei non reagì, non provò neppure ad aprire gli occhi.
Una lacrima e basta.