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Eddie Tucci sapeva di aver fatto una cazzata. Incredibile! Era stato un errore madornale affidare quell’incarico – qualsiasi incarico! – a suo nipote Johnny. Non per niente lo chiamavano Tic. Adesso era scomparso e Eddie aveva passato gli ultimi tre giorni ad aspettare che scoppiasse il merdone.
Quando le luci del suo bar si spensero, subito dopo l’orario di chiusura, il mercoledì sera, lì per lì non si preoccupò. Non funzionava niente, in quel palazzo. Anzi, in tutto il quartiere. Mancava la luce ogni due per tre.
Chiuse la cassa e scese dalla pedana dietro il bancone. Era buio pesto. Entrò nel retrobottega per controllare il contatore.
Non ci arrivò mai.
Gli cadde sulla testa qualcosa di molto pesante. Così, dal nulla. E, contemporaneamente, lo colpì qualcosa al ginocchio destro. Sentì la gamba cedere e cadde per terra con un gemito.
Continuò a gemere anche quando gli immobilizzarono le braccia e gli legarono le caviglie. Non riuscì nemmeno a tirare un pugno o un calcio ai suoi aggressori. Si ritrovò legato come un salame.
«Bastardi! Vi ammazzo! Mi sentite? Mi sentite?»
Evidentemente no, non lo sentivano. Lo sollevarono di peso, lo stesero sul tavolo nel retrobottega e lo ammanettarono alle gambe del tavolo. Eddie fece resistenza, con l’unico risultato di graffiarsi i polsi. Se anche fosse riuscito a scendere da lì, il ginocchio non avrebbe retto. Non sarebbe più tornato normale, pensò. Sarebbe finito su una sedia a rotelle.
Qualcuno aprì il rubinetto. Al massimo.
Cosa cazzo volevano fare?