5
A Gabriel Reese sembrò una strana ironia della sorte che quella riunione insolitamente programmata per le prime ore del mattino si dovesse tenere in un palazzo originariamente costruito per i dipartimenti di Stato, Marina e Guerra. Reese vedeva la storia in tutto quello che faceva. Washington era nel suo sangue, nel sangue della sua famiglia, da tre generazioni.
Lo aveva chiamato con voce piuttosto tesa il vicepresidente in persona, Walter Tillman, che avendo diretto due società fra le prime cento nella classifica di Fortune non era propriamente uno che si perdeva in un bicchier d’acqua. Non era entrato nei dettagli: gli aveva semplicemente detto di andare subito all’Eisenhower Executive Office Building. In teoria, lì venivano ricevute le personalità di rilievo e i vicepresidenti, da Johnson a Cheney, vi avevano accolto capi di Stato provenienti da ogni parte del mondo.
Ma la cosa principale era che si trovava a una certa distanza dalla West Wing e da altri occhi indiscreti.
Le porte dell’ufficio erano chiuse, quando Reese arrivò. Dan Cormorant, capo del servizio di sicurezza della Casa Bianca, era lì davanti. Nel corridoio, a una certa distanza, c’erano altri due agenti, uno da una parte e uno dall’altra.
Reese entrò. Cormorant lo seguì e chiuse la porta dietro di sé.
«Signore?» disse Reese.
Il vicepresidente Tillman era seduto in fondo e dava loro la schiena. Sulle finestre si rifletteva la luce delle bocce dell’elaborato lampadario che pendeva al centro del soffitto e che era una riproduzione. Un certo numero di modelli di navi racchiusi in teche di cristallo testimoniavano il passato di quell’ufficio, che era stato del generale Pershing durante la seconda guerra mondiale.
Tillman si voltò e disse: «Abbiamo un problema, Gabe. Siediti, per cortesia. Non è una bella cosa. Anzi, oserei dire che non potrebbe esserci di peggio».