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Continuavano ad arrivarmi colpi su colpi, e forti. Nonostante la patente del Rhode Island, Caroline aveva passato gli ultimi sei mesi a Washington e non aveva mai neppure cercato di contattarmi. Aveva un appartamento nel seminterrato di una casa all’inglese in C Street, vicino a Seward Square, che dista più o meno un chilometro da Fifth Street. Passavo davanti a casa sua molto spesso, quando andavo a fare jogging.
«Aveva buon gusto» commentò Bree, guardando il salotto della casa di Caroline, che era piccolo ma molto trendy.
Lo aveva arredato in stile orientale: legno scuro, bambù e molte piante curatissime. Sul tavolo laccato vicino alla porta d’ingresso c’erano tre sassi di fiume, su uno dei quali era incisa la parola Serenity.
Non so se mi fece più male il contrasto con la fine che aveva fatto Caroline o la sensazione che per avere un po’ di serenità sarei dovuto uscire da quella casa. Avevo voglia di andarmene subito.
«Dividiamoci» propose Bree. «Così facciamo prima.»
Mi feci forza e cominciai dalla camera da letto. Chi eri, Caroline? Che cosa ti è successo? Come mai hai fatto questa brutta fine?
Mi cadde l’occhio sull’agendina rivestita in pelle sulla scrivania, vicino al letto. La presi in mano, facendo cadere due biglietti da visita.
Li raccolsi e vidi che erano entrambi di due lobbisti del Campidoglio. Non conoscevo i nomi, ma le società a cui appartenevano sì.
La metà delle pagine dell’agendina erano vuote e sulle altre erano appuntate delle stringhe di lettere, a cominciare dall’inizio dell’anno. Notai subito che ogni serie ne conteneva dieci. La più recente, di due settimane prima della morte di Caroline, era SODBBLZHII. Dieci lettere.
Pensai che si trattasse di numeri di telefono, in codice per qualche motivo di privacy.
Mi chiesi che bisogno ci fosse di fare una cosa del genere, ma solo perché non ero pronto a prendere in considerazione l’ipotesi più verosimile. Purtroppo, quando guardai nei cassetti della cabina armadio, dovetti rassegnarmi ad accettare il motivo per cui mia nipote poteva permettersi un appartamento tanto elegante e tutto ciò che vi era contenuto.
Nei primi due cassetti c’era biancheria di tutti i tipi possibili e immaginabili, e vi assicuro che l’immaginazione non mi manca. C’erano i prevedibili completini di raso e pizzo, ma anche slip in pelle, con e senza borchie, latex e gomma. Erano tutti ripiegati e sistemati con cura. Probabilmente sua madre le aveva insegnato sin da piccola a tenere in ordine gli armadi.
Nei cassetti più in basso c’era una collezione di legacci, vibratori e attrezzi vari, di alcuni dei quali indovinai a malapena il possibile utilizzo.
Presi separatamente, quegli oggetti non volevano dire granché ma, nel complesso, fornivano un quadro molto deprimente.
Era per questo che Caroline si era trasferita a Washington? Era per questo che aveva fatto la fine che aveva fatto?
Uscii dalla camera da letto sconsolatissimo e senza nessuna voglia di parlare. Bree era seduta per terra e guardava dentro una scatola. Sparse sul pavimento c’erano una serie di fotografie.
Ne sollevò una per farmela vedere. «Ti riconoscerei ovunque» disse.
Era una foto di Nana, Blake e me. Sapevo in che data era stata scattata: il 4 luglio del 1976, l’estate del bicentenario. Io e mio fratello avevamo in testa una paglietta di plastica con il nastro bianco, rosso e blu. Nana era giovanissima e graziosissima.
Bree si alzò in piedi e mi si avvicinò, con la foto in mano. «Non si era dimenticata di te, Alex. In un modo o nell’altro, sapeva chi eri. Mi lascia perplessa che non abbia provato a mettersi in contatto con te, quando è venuta a stare a Washington.»
Non ero autorizzato a prendere la fotografia di Nana, mio fratello e me, ma me la misi in tasca lo stesso. «Penso che non volesse far sapere niente di sé» dissi. «Non voleva confessarlo né a me né a nessuno di noi. Faceva la escort, Bree. La squillo d’alto bordo, o come la vuoi chiamare.»