26
Nana era viva. L’importante era questo: non mi premeva altro, in quel momento. E mi chiedevo perché, quando si rischiava di perdere una persona cara, questa diventava ancora più preziosa.
Fu tremendo aspettare che tornasse, dopo gli esami. Dovetti stare seduto per ore in un corridoio illuminato da neon, mentre mi passavano per la testa i pensieri più cupi. Mi succede sempre: dev’essere una deformazione professionale. Cercavo di pensare a Nana, di ricordarla. Mi faceva da madre e da padre da quando avevo dieci anni.
Quando finalmente la riportarono fuori, mi rallegrai di poterla di nuovo guardare negli occhi. All’arrivo in ospedale era priva di sensi e non sapevo se l’avrei più rivista viva.
Invece adesso era lì e mi parlava.
«Vi ho fatto spaventare, eh?» disse con un filo di voce. Mi parve ancora più minuta del solito, distesa su quella barella, ma era vispa.
«Altroché» risposi. Evitai di dire altro, per non opprimerla. Le diedi un bacio sulla guancia.
«Bentornata fra noi, vecchietta!» le sussurrai in un orecchio per farla sorridere. E lei, infatti, sorrise.
«Sono contenta anch’io, sai? Adesso, però, andiamo via da questo postaccio!»