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Quella sera, tornando dall’aeroporto, Ned Mahoney e io partecipammo a una teleconferenza convocata d’urgenza mentre eravamo in volo. Theodore Vance, detto Teddy, era in compagnia della moglie, presidente degli Stati Uniti, al galà per la consegna dei premi del Kennedy Center. L’avevamo in pugno. Parlammo di come procedere.
Le maggiori resistenze venivano dal Secret Service, che paradossalmente in quella situazione era quello che aveva meno potere decisionale. A parte me, naturalmente. Parlò soprattutto il vicedirettore investigativo del Secret Service, Angela Riordan.
«Stiamo parlando del marito del presidente degli Stati Uniti. Se il Bureau proverà a scavalcarci, quando metterà piede nel Kennedy Center non ce lo troverà più. C’è bisogno che ve lo ripeta?»
«Nessuno vi vuole scavalcare, Angela» replicò Luke Hamel, il vicedirettore dell’FBI che era stato responsabile delle indagini finché il caso non era stato trasferito a Charlottesville. Era in linea anche il direttore dell’FBI, Ron Burns in persona, che ascoltava insieme ad alcuni esperti dell’ufficio legale. «Non si parla di arrestarlo, almeno per il momento» continuò Hamel. «Vogliamo soltanto parlargli. In qualità di persona informata sui fatti.»
«In tal caso non vedo perché non si possa aspettare fino a domani.» Riconobbi dal leggero accento l’avvocato personale di Vance, Raj Doshi, che stava arrivando dal Maryland.
«Veramente un motivo c’è, e molto valido» intervenni. «L’insabbiamento di questa faccenda è già costato la vita a più di una persona. Non intervenire stasera significa mettere a repentaglio altre vite. La mia sensazione è che, più ne parliamo, più aumenta il rischio.»
«Mi scusi, ispettore Cross... È lei, vero?» disse Angela Riordan. «Non possiamo prendere decisioni tattiche di questa portata sulla base delle sue sensazioni di pancia o delle sue paranoie.»
«Con tutto il rispetto, lei non può sapere se le mie sono paranoie o no» ribattei. Non volevo farlo pesare, ma Ned Mahoney e io avevamo più carte in mano degli altri partecipanti alla teleconferenza.
Alla fine Angela Riordan si rese conto di non avere alternative e acconsentì a lasciarci interrogare Vance.
Doshi insistette affinché il colloquio avvenisse altrove, l’FBI non sollevò obiezioni e fu deciso di utilizzare una sala dell’Eisenhower Building.
«Sono di nuovo Cross» intervenni. «Ho ragione a pensare che Dan Cormorant sia già al Kennedy Center?»
«Perché lo vuole sapere?» Questa volta era stato l’agente Silo Ridge a intervenire. Non mi ero neppure accorto che ci fosse.
«Il mio contatto nel Secret Service per quanto riguarda Zeus è Cormorant» dissi. «Immagino che sia a conoscenza di informazioni che ci potrebbero essere utili.»
La verità era che avevo alcune domande da fare a Dan Cormorant e volevo parlargli a tu per tu.
Nessuno mi rispose, ma non importava. Stavo per scoprire comunque quello che mi interessava sapere. Eravamo giunti in vista del Kennedy Center.