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Dopo il ritrovamento di Williams, successero parecchie cose molto in fretta. Nel giro di poche ore arrivarono sulla scena nuove versioni dei soliti personaggi: da Richmond arrivò la polizia della Virginia e da Charlottesville una squadra dell’FBI. Non conoscevo nessuno, il che forse era un bene o forse invece no: lo avrei scoperto presto.

La Evidence Response Team dell’FBI comprendeva specialisti in sierologia, analisi di peli, fibre e prove materiali, armi da fuoco, fotografia e impronte digitali. Montarono una tenda e stesero lunghi fogli di carta da macellaio su alcune tavole sistemate su cavalletti.

Suddivisero il terreno intorno al trituratore in quadrati di venti centimetri per venti e si misero al lavoro, setacciandoli con cura uno per uno in modo da separare da terra e detriti tutto il materiale potenzialmente significativo.

Il trituratore, prima di essere trasferito in un laboratorio di Richmond per essere smontato e analizzato a fondo, fu trattato con sostanze che rivelarono la presenza di sangue. A un primo esame visivo sembrava inoltre che fra le lame ci fossero frammenti di ossa.

Tutto fu fotografato, documentato e chiuso in apposite buste di carta per essere trasportato in laboratorio.

L’operazione più veloce fu la perquisizione del bosco circostante la baracca. Un tenente colonnello della polizia della Virginia mandò a chiamare due squadre cinofile e già nelle prime ore i cani individuarono un tratto di terra smossa da poco a meno di un chilometro di distanza in direzione est.

Vennero così rinvenuti, a una profondità di circa un metro e mezzo, due sacchi di plastica contenenti resti umani. Eravamo tutti sgomenti: non si è mai pronti a certi orrori.

I nuovi «resti» si presentavano esattamente come quelli di Caroline. Eravamo d’accordo sul fatto che dovevano essere stati sotterrati tre giorni prima al massimo. Pensai subito a Tony Nicholson e Mara Kelly, ufficialmente «latitanti».

«I conti tornano, almeno sulla carta» dissi a Sampson. «Prima li fai uscire di prigione e poi li fai sparire. E intanto la polizia pensa che siano fuggiti all’estero.»

«Bel modo di far sparire le prove...» osservò Sampson. «Anche se, devo ammettere, efficace.»

All’una del mattino eravamo ancora lì, seduti su un gradino a guardare l’agente che etichettava quei miseri resti e li chiudeva in due sacchi mortuari. John non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo. Io, invece, ero disgustato e depresso al pensiero che il caso più raccapricciante di tutta la mia carriera annoverasse fra le vittime anche mia nipote.

Ma quel pensiero, oltre a deprimermi, mi spingeva ad agire. Per la quarta volta da quattro ore a quella parte composi il numero di Dan Cormorant. Finalmente, mi rispose.

«Dove siete?» gli chiesi. «Il Secret Service è al corrente degli ultimi sviluppi?»

«Deduco che lei non sta guardando la televisione» replicò. «A parte ESPN, devono esserci tutte le TV del Paese, in quel bosco.»

«Cormorant, mi stia a sentire. Remy Williams non era Zeus, così come non lo erano Tony Nicholson o Johnny Tucci. Williams sarà anche stato uno spietato assassino, ma non è l’uomo che cerchiamo.»

«Sono d’accordo» disse Cormorant. «E sa perché? Perché abbiamo identificato Zeus in questo preciso momento. Se vuole essere presente quando metteremo fine una volta per tutte a questa storia, deve tornare in città al più presto. Si sbrighi, ispettore: il caso sta per essere risolto. E mi sembra giusto che ci sia anche lei.»

Il segno del male
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