102

Il profiler che è in me era concentratissimo quando entrai, solo, nella casa di Bowie. Era spaziosa e bene arredata, con oggetti d’arte e di antiquariato che dovevano costare parecchio. Era anche estremamente ordinata: non c’era nulla fuori posto, neanche un giornale o una rivista. Pareva la casa di una persona con un fortissimo autocontrollo. Era lì che abitava Zeus?

La camera da letto era all’ultimo piano.

I due agenti nel corridoio mi salutarono con un cenno del capo, quando arrivai in cima alle scale, ma non dissero niente. Vidi anche due dei tre che si trovavano dentro la camera e tenevano Bowie sotto tiro con le loro MP5. Mi presentai all’ostaggio.

«Bowie, sono Alex Cross, del dipartimento di polizia. Sto per entrare, okay?»

Dopo un momento di silenzio, una voce tesa rispose: «Entri. Mi faccia vedere il distintivo».

Era seduto per terra, in mutande, e sudava copiosamente. Il letto matrimoniale era sfatto e il cassetto del comodino era aperto.

Bowie, che doveva essere stato sorpreso mentre dormiva, si era rifugiato sotto una finestra, tra il letto e una delle due cabine armadio. Aveva le braccia tese davanti a sé e teneva una SIG Sauer .357 puntata contro l’agente più vicino.

Notai subito l’anello che portava nella destra: era d’oro, con una pietra rossa, e assomigliava moltissimo a quello che si vedeva nel filmato che tutti ormai conoscevamo. Mi chiesi perché ci stava rendendo la vita così facile. Era davvero lui Zeus?

Tenendo le mani in avanti, con il distintivo bene in vista, mi affacciai sulla soglia. Tutti gli altri restarono immobili come statue.

«Bella casa» esordii. «Da quanto tempo abita qui?»

«Cosa?!» Bowie mi lanciò un’occhiata, poi tornò a fissare l’agente che teneva sotto tiro.

«Le ho chiesto da quanto tempo vive in questa casa. Così, tanto per rompere il ghiaccio.»

«Vuole controllare se sono lucido?» ribatté in tono sprezzante.

«Esatto.»

«Abito qui da due anni. Il presidente degli Stati Uniti si chiama Margaret Vance. Sette per otto fa cinquantasei. Contento, adesso?»

«Quindi si rende conto della gravità di quello che sta facendo» replicai.

«È qui che si sbaglia» ribatté. «Non ho idea di che cosa cazzo volete.»

«Be’, glielo spiego io. O almeno ci provo. Tecnicamente, lei è in arresto per l’omicidio di Sally Anne Perry.»

Non spostò lo sguardo, ma gli vidi un lampo di collera negli occhi. «Cazzo! Cercano di mettermelo in quel posto da quando mi hanno cacciato fuori.»

«Chi?»

«Quelli del Secret Service. I federali. Il presidente Vance, per quello che ne so.»

Mi fermai a prendere fiato, sperando che anche lui facesse la stessa cosa. «Lei manda segnali contraddittori, Bowie» gli dissi. «Un attimo fa sembrava lucido e adesso...»

«Oh, be’, il fatto che io sia paranoico non esclude che quelli me lo vogliano mettere in quel posto, le pare?»

Non potendo dargli torto, cambiai argomento.

«Mi dica che cosa vuole per posare la pistola.»

Indicò con un cenno l’agente più vicino e rispose: «Voglio che quelli posino le loro».

«Senta, Constantine, sa benissimo che non è possibile. Cerchi di collaborare. Se davvero è innocente, io starò dalla sua parte. Dove ha preso quell’anello?»

«La smetta di farmi domande. Basta.»

«Okay.»

Aveva le braccia molto muscolose, ma dopo venti minuti che le teneva tese allo spasimo cominciavano a tremargli. E infatti cambiò posizione, mettendosi su un ginocchio con l’arma posata sull’altro.

«Bowie, io...»

Si sentì un tintinnio, nulla di più. Uno dei vetri della finestra andò in mille pezzi e Bowie cadde a faccia in giù sul tappeto, con un piccolo foro scuro nella nuca.

Non credevo ai miei occhi. Non volevo crederci. Gli uomini delle Squadre Speciali entrarono immediatamente in azione: uno mi prese per le spalle e mi trascinò nel corridoio e tutti gli altri si precipitarono intorno a Bowie.

«È stato esploso un colpo. Il soggetto è ferito! Mandate subito i soccorsi!»

Pochi secondi dopo riuscii a farmi largo e a tornare nella stanza. Tremavo di rabbia. Perché gli avevano sparato? Proprio quando stavo per farlo parlare! Bowie era steso a faccia in giù, con le braccia aperte. Dalla finestra vidi un agente sul tetto della casa di fronte che riponeva il fucile.

«Restate dove siete, paramedici» stava dicendo il comandante. «Vi veniamo incontro al piano terra.»

Poi due degli agenti mi scortarono con fermezza fuori della stanza e giù per le scale. Nessuno aveva più bisogno di me.

Arrivati al portone, incontrammo i soccorritori che aspettavano. Il protocollo prevedeva che venissero chiamati, ma a quel punto era solo una formalità. Era chiaro che Constantine Bowie era morto.

E che io ero stato usato come esca. Avevano stabilito di ucciderlo fin dal principio.

Ma chi era stato a ucciderlo? Era l’unica cosa che non capivo.

Il segno del male
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