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Soltanto una settimana prima, se aveva sete, Tony Nicholson stappava una bottiglia di champagne da cinquecento dollari. E adesso era lì, sotto la pioggia, in una lurida piazzola piena di camion sulla I-95 come un immigrato clandestino in fuga.

Mara, seduta dentro il Landmark Diner, lo aspettava guardandolo da dietro il vetro. Quando Nicholson si voltò, vide che si indicava il polso e si stringeva nelle spalle come a dire che era tardi e dovevano andare.

Lo sapeva, non se n’era dimenticato.

Il fatto è che non avevano alternative, a parte marcire in una cella del carcere di Alexandria. Se non altro così avevano la promessa di due passaporti, di biglietti aerei e di contanti sufficienti a lasciare per sempre quel continente dove senza carte di credito non si andava da nessuna parte.

Ma il suo contatto tardava ad arrivare e a mano a mano che i minuti passavano Nicholson era sempre più preoccupato. Oltre a tutto, con quel freddo e quell’umidità, il ginocchio gli faceva ancora più male e, a furia di stare in piedi, gli pulsava tremendamente.

Finalmente, dopo altri cinque minuti, vide muovere qualcosa.

Un furgone fece lampeggiare i fari sul lato opposto del parcheggio. Nicholson guardò meglio e l’autista gli fece cenno di avvicinarsi.

Poi gesticolò ancora, con più urgenza.

A Nicholson balzò il cuore in gola. C’era qualcosa che non andava. Aspettava un’auto e non un furgone, e l’aspettava lì davanti, dove c’era gente e dove non poteva succedere nulla di strano.

Troppo tardi. Quando si voltò a guardare di nuovo verso il ristorante, Mara non c’era più. Al suo posto c’era un ragazzino che lo guardava da dietro il vetro con le mani sulle guance come in un remake del Villaggio dei dannati.

Con il battito a mille, Nicholson fece cenno all’autista del furgone che sarebbe tornato subito e si avviò zoppicando verso la porta a un passo che sperava risultasse abbastanza naturale.

Una volta dentro, vide che sia il ristorante sia l’edicola erano praticamente deserti. Di Mara non c’era traccia.

Controllò rapidamente la toilette delle donne, deserta, ed ebbe la conferma di quel che già sapeva: ormai correva da solo. Proseguì e uscì dalla porta sul retro.

Lo spiazzo dietro la stazione di servizio era vuoto e silenzioso. Aveva lasciato l’auto presa a noleggio a una cinquantina di metri di distanza. Decisamente troppo lontano. Si voltò e vide che dalla stessa porta di servizio da cui era passato lui poco prima era appena uscito qualcuno. Forse era l’autista del furgone, o forse no: era difficile dirlo, con quella pioggia.

Cominciò a correre sull’asfalto pieno di pozzanghere, trascinando la gamba che gli faceva un male da morire, ma la persona alle sue spalle correva più forte.

Con la coda dell’occhio vide che il furgone si stava spostando lungo il piazzale. Dalla scritta sulla fiancata capì che era il furgone di una macelleria e una parte del suo cervello apprezzò l’ironia.

Madonna santa, sono spacciato. E anche Mara. Forse l’hanno già ammazzata.

Arrivò a posare una mano sulla portiera dell’auto, poi si sentì tappare la bocca: era un uomo dalle braccia possenti che lo sollevò da terra come se fosse stato un bambino.

Per una frazione di secondo temette che gli spezzasse il collo, ma poi lo sconosciuto si limitò a dargli un pugno sotto il mento.

Disorientato, si vide passare confusamente davanti agli occhi il parcheggio, il cielo, l’auto. Poi calò il sipario.

Il segno del male
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