28

Tony Nicholson sarebbe stato già abbastanza agitato e in ansia, anche senza essere in ritardo. Purtroppo appena fuori della città si era rovesciato un autotreno e Nicholson raggiunse il Blacksmith Farms alle nove e mezzo passate. Alle dieci aspettava ospiti importanti, uno dei quali era davvero importante.

Rimase un istante in auto e suonò il citofono.

«Sì?» rispose una voce di donna. Colta, accento inglese. La sua assistente, Mary Claire.

«Sono io, M.C.»

«Buonasera, signor Nicholson. È in ritardo.» Ottima deduzione, Sherlock, pensò Nicholson. Ma non disse niente.

Il cancello si aprì e si richiuse subito dopo il passaggio della sua Cayman S.

Il lungo viale attraversava un ampio prato e quindi un boschetto, principalmente di querce e noci americani, prima di arrivare alla villa. Nicholson parcheggiò la Cayman nella rimessa, che un tempo ospitava le stalle, ed entrò in casa attraverso la portafinestra che dava sul patio.

«Sono qui. Sono qui. Scusi.»

La maîtresse della serata, Esther, bellissima, di Trinidad, stava sistemando alcune cartelline in pelle sul tavolo Chippendale nell’atrio.

«Deve dirmi qualcosa?» chiese Nicholson. «Problemi? Imprevisti?»

«Nessuno, signor Nicholson. Tutto perfetto.» Esther aveva una calma invidiabile, che lui apprezzava molto. Lo rilassò all’istante. «Il Bollinger è ghiacciato, i Flor de Farach sono negli umidificatori, le ragazze sono molto graziose e ben preparate e lei ha...» Si interruppe per guardare l’orologio che teneva nella tasca. Non c’erano orologi in vista da nessuna parte nel club. «Ha almeno venti minuti prima che arrivino i primi invitati. Hanno chiamato per avvisare che saranno puntuali. Sembravano... entusiasti

«Molto bene. Ottimo lavoro. Sa dove trovarmi, se ha bisogno di me.»

Nicholson passò in rassegna il pianterreno, prima di salire di sopra. Atrio e salette ricordavano quelli di un club inglese, con i rivestimenti in mogano, bar con rifiniture in ottone e mobili antichi costati cifre veramente assurde. Pensò che suo padre avrebbe potuto solo sognare di entrare in un luogo così, visto lo schifoso classismo inglese. Nicholson era nato a Brighton in una famiglia operaia, ma si era lasciato alle spalle lo squallore di quei tempi. Adesso viveva come un re. O perlomeno come un principe.

Salì al primo piano passando per la scala principale e vide che le ragazze erano quasi tutte già vestite e in attesa dei primi invitati.

Erano molto belle, eleganti e sexy. Erano sedute sui divani bassi del mezzanino, che era dotato anche di pouf e paraventi che all’occorrenza potevano essere sistemati in maniera da garantire un po’ di privacy, se i clienti lo desideravano.

«Buonasera, signorine» disse, guardandole con occhio esperto. «Mi complimento: siete tutte molto carine. Perfette, oserei dire. In tutti i sensi.»

«Grazie, Tony» disse una di esse, a voce lievemente più alta delle altre. Era Katherine, naturalmente, i cui occhi grigiazzurri si soffermavano sempre un po’ più a lungo sui suoi lineamenti delicati. Le sarebbe piaciuto molto entrare nelle sue grazie, ma per i motivi sbagliati. Nicholson l’aveva capito subito. Le sarebbe piaciuto prendere il posto di sua moglie.

Nicholson si chinò a sussurrarle qualcosa nell’orecchio, tastando l’orlo della minigonna bianca di pizzo. «Potresti metterti un altro vestito, Kat? Non vogliamo che una puttana sembri una puttana, no?»

Lei cercò di sorridere, come se le avesse detto qualcosa di carino. Senza rispondere, si alzò e se ne andò. «Devo andare in un posticino» disse.

Nicholson controllò che fosse tutto in ordine e poi si ritirò nel suo studio, chiudendo la porta a chiave. Era al secondo piano, off-limits per tutti quanti, ospiti e servitù.

Si versò un bicchiere di Bollinger da settecento dollari a bottiglia, a spese del suo cliente, e si sedette. Era reduce da una giornata campale e finalmente poteva rilassarsi.

Be’, non proprio. Ma perlomeno poteva bersi un Bollinger.

Sulla scrivania c’erano due monitor a schermo grande, piatto. Accese l’impianto e digitò la password, che era lunga e complessa.

Gli schermi si riempirono di immagini piuttosto piccole, che si aprirono una dopo l’altra come tessere di un domino.

A prima vista, sembravano minuscole nature morte, ciascuna di una parte diversa della villa: atrio, mezzanino, suite per gli ospiti, sala massaggi, cantina, sale proiezioni. Ce n’erano trentasei in tutto.

Si soffermò un momento a guardare l’infida Katherine in uno degli spogliatoi, in perizoma e basta, che sospirava facendo ballonzolare i seni e si aggiustava il mascara, che le si era sciolto per le lacrime. Era bellissima, okay, ma era stato un errore assoldarla: troppo ambiziosa, troppo intelligente. In quel momento, tuttavia, non era lei la priorità.

Cliccò su un’immagine del viale davanti alla casa e la trascinò in maniera che si aprisse sull’altro monitor, a pieno schermo. Il cronometro in basso cominciò a segnare i secondi che scorrevano.

Cliccò un’altra volta sul bottone triangolare rosso, per avviare la registrazione.

Stavano arrivando le prime automobili. La festa stava per cominciare.

«Si dia inizio alle danze, in senso metaforico e letterale» disse. «Vediamo di soddisfare i desideri più perversi dei nostri ospiti.»

Il segno del male
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