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La tempesta mediatica che mi aspettava al rientro a Washington fu, se possibile, ancora peggiore di quella che mi ero lasciato alle spalle. Kyle Craig era stato per molto tempo il ricercato più famoso d’America e tutti volevano avere informazioni sulla vicenda. Dovetti ricorrere a Rakeem Powell e alle sue guardie ancora per un po’, per tenere alla larga i curiosi e assicurare alla mia famiglia una parvenza di privacy.
Pensavo che Nana fosse arrabbiatissima per quello che era successo a Nassau, invece no. Ci sforzammo tutti di ritornare alla nostra routine.
Dovetti affrontare il non facile compito di spiegare ai ragazzi, sia insieme sia separatamente, che quella disavventura era stata terribile, ma segnava anche la fine di un incubo.
Mi sembrò che l’avessero capito, ciascuno a modo suo, e alla fine delle mie due settimane di ferie stavamo tutti abbastanza bene.
Quanto a me, avevo preso una decisione. Dovevo essere più presente, almeno per un po’. Chiesi di essere messo in aspettativa senza stipendio fino alla fine dell’estate. Speravo tanto che la mia domanda venisse accolta. E, se mi avessero detto di no, pazienza: mi sarei cercato un altro lavoro.
Tra l’altro, stavo pensando seriamente di scrivere un libro, questa volta su Kyle Craig e il caso «Mastermind». Oltre ad aver rappresentato la sfida più grossa della mia carriera, Kyle era stato anche mio amico, molto tempo prima. Sentivo di avere qualcosa da dire, una storia importante da raccontare.
Nel frattempo, volevo piantare i girasoli, vedere dei film, fare boxe nel seminterrato con i miei figli, guardare partite di baseball, visitare lo Smithsonian. E poi lunghe cene e piacevoli serate da passare chiacchierando o giocando a Quartetto, e con la mia nuova mogliettina, che meritava tutto l’amore possibile.
Avevamo una nuova vita da cominciare insieme.