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Purtroppo, quando arrivai, i giornalisti si erano già scatenati. Decine di cameraman cercavano l’angolazione migliore per riprendere la villa bianca di Mel e Nina Dlouhy, attraverso le barriere che il sergente Ed Fleischman aveva eretto o da Twenty-first Street, dove avevano preso posizione alcuni agenti allo scopo di impedire ai curiosi di avvicinarsi da dietro.
Molti, se non erano giornalisti, arrivavano da Cleveland Avenue. I residenti della zona erano tutti rintanati in casa: avevo visto le sagome dietro le finestre, passando in macchina. Mi presentai e mandai subito alcuni agenti a bussare alle porte dei vicini per capire se avevano visto o sentito qualcosa.
Sampson arrivò da un ricevimento all’università di Georgetown, dove sua moglie Billie insegnava scienze infermieristiche. «Non ti dico che sono stato contento di andarmene, ma possibile che a questi buffet servano solo vino e formaggio?» brontolò.
Cominciammo dal salotto, dove i Dlouhy erano seduti a guardare una puntata di Closer al momento del fattaccio. Il televisore era ancora acceso e sullo schermo era inquadrata proprio la casa dei Dlouhy. Sembrava una beffa. «Mi vengono i brividi» disse Sampson. «Ai media piace tanto parlare di invasione della privacy, tranne quando sono loro a invaderla.»
La signora Dlouhy aveva dichiarato che, mentre era in salotto con il marito a guardare la TV, aveva sentito un tintinnio sul vetro, si era voltata a guardare, aveva visto la finestra rotta e, soltanto dopo, aveva notato il marito accasciato sulla poltrona accanto a lei, con gli occhi sbarrati. La sentivo che piangeva in cucina. Era insieme a uno dei nostri psicologi. Poveretta, mi faceva una gran pena. Che incubo.
Mel Dlouhy era ancora seduto in poltrona. Il foro lasciato dal proiettile nella tempia era abbastanza pulito, con un piccolo alone nerazzurro sui bordi. Sampson me lo indicò con la punta di una penna.
«Diciamo che era qui, quando è stato colpito» ipotizzò, sollevando la penna di una quindicina di centimetri per mostrarmi dove poteva essere la testa di Dlouhy al momento dello sparo. «E che il proiettile è entrato da lì» continuò, disegnando la traiettoria del proiettile fino al vetro rotto.
«Quindi è stato sparato dall’alto» osservai. Il proiettile aveva rotto il vetro di uno dei sei riquadri superiori di una finestra a ghigliottina che si affacciava sul giardino dietro la casa. Senza dire una parola, andammo nella sala da pranzo e uscimmo nel giardino attraverso una porta finestra.
Era lungo e stretto, con una zona piastrellata vicino alla casa. Due riflettori sui lati ne illuminavano più o meno la metà. Non sembrava ci fossero casotti o alberi grossi abbastanza per sostenere il peso di un uomo.
La villa a tre piani in stile Tudor dall’altra parte del giardino era illuminata da un lampione di Thirty-first Street. Nel suo giardino c’erano due querce molto alte, perlopiù oscurate dalla casa.
«Dicevi che i vicini non ci sono?» chiese Sampson.
«Sono fuori città» risposi. «L’assassino sapeva quello che faceva. Forse ci ha voluto dare una dimostrazione della sua bravura. Voleva rinsaldare la fama conquistata con il primo colpo, probabilmente.»
«Secondo te è un uomo?»
«Io direi di sì.»
«Ispettore?» Era comparso all’improvviso il sergente Ed Fleischman. Gli guardai le mani per controllare che avesse i guanti.
«Che cosa fa qui, sergente? Credevo fosse impegnato altrove.»
«Due cose, ispettore. Alcuni vicini riferiscono di aver visto strani veicoli in zona.»
«Veicoli? Più d’uno?»
Fleischman annuì. «Per quel che vale. Una vecchia Buick targata New York, vista diverse volte ferma lungo la strada nei giorni scorsi.» Lesse dal bloc-notes. «E un grosso SUV scuro, forse un Suburban, molto malandato. Era qui stasera, qualche ora fa.»
In quel quartiere le auto malandate non erano molte, a parte durante il giorno quando domestici e operai andavano a lavorare. Bisognava capire a chi appartenevano quei due veicoli.
«E l’altra cosa?»
«C’è l’FBI.»
«Va bene. Che vadano a perlustrare il giardino dei vicini» dissi al sergente.
«Veramente c’è un agente soltanto, ispettore. Ha chiesto di lei.»
Allungai il collo e vidi un uomo alto, bianco, giacca e cravatta. Era chino a guardare la ferita sulla tempia di Mel Dlouhy, con le mani protette dai guanti posate sulle ginocchia.
«Mi scusi?» lo chiamai dalla finestra rotta. «Come mai è qui?»
Forse non mi sentì. O forse fece finta.
«Come si chiama?» domandai a Fleischman.
«Siegel.»
«Siegel?» lo chiamai, alzando la voce. Poi entrai in casa per parlargli. «Non tocchi niente, per carità!»