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Poco dopo me ne andai, contento di avere una scusa per congedarmi dal detestabile Siegel.
La seconda vittima della serata, Rebecca Littleton, era stata portata al George Washington University Hospital con un proiettile nella spalla. Al pronto soccorso mi dissero che si trattava di un trauma penetrante e non perforante, con ritenzione del corpo estraneo, e che avrebbero dovuto estrarle il proiettile chirurgicamente. Volevo parlarle prima che la portassero in sala operatoria.
La trovai stesa su una lettiga in una sala visite del pronto soccorso, con la spalla fasciata. Le bende erano macchiate di Betadine. Se anche le avevano messo nella flebo qualche antidolorifico, non sembrava per nulla sedata. Anzi, era molto agitata, spaventatissima e bianca come un cencio.
«Sono l’ispettore Cross, della Metro Police» mi presentai. «Vorrei parlarle un momento.»
«Sono indagata anch’io?» Dimostrava diciotto, diciannove anni. Appena maggiorenne, insomma. Le tremava la voce.
«No» le risposi. «Volevo solo farle qualche domanda. Cercherò di fare presto.»
Se anche a qualcuno fosse venuto in mente di indagare su un possibile reato di sfruttamento della prostituzione, non c’era nessuna prova che Rebecca Littleton facesse la escort. L’unico che avrebbe potuto denunciarla era morto.
«Ha idea di chi possa essere stato a sparare? Ha visto qualcosa di strano? Qualcuno dalla finestra? Qualcosa di fuori posto nella stanza?»
«Non mi pare, ma... Non mi ricordo quasi niente. Downey stava chiudendo le tende e io... Mi sono ritrovata per terra. Non ricordo neanche cos’è successo dopo. O appena prima.»
In realtà era stata lei a chiamare i soccorsi, trascinandosi fino al comodino per prendere il telefono. Piano piano le sarebbe tornato in mente tutto ma, per il momento, non volevo traumatizzarla ulteriormente.
«Era la prima volta che andava lì con Downey?» le chiesi.
«No. Ci vedevamo regolarmente.»
«Sempre al Mayflower?»
Rebecca fece di sì con la testa. «Gli piaceva quella suite. Prendeva sempre quella.»
Fece capolino un’infermiera vestita di rosa. «Stiamo per portarti su, Rebecca. Tutto bene?»
Scostò il paravento e vidi che era insieme ad altre persone. Uno tolse i fermi alle ruote della lettiga.
«Un’ultima domanda» feci. «Da quanto tempo eravate nella stanza, quando è successo?»
Rebecca chiuse gli occhi e rifletté un istante. «Cinque minuti? Eravamo appena arrivati. Senta, ispettore, io vado al college. Se i miei genitori...»
«Non è indagata, Rebecca, ma il suo nome verrà fuori. Le conviene chiamarli.»
La accompagnai, mentre veniva portata nel corridoio, verso gli ascensori. Non sembrava avere nessuno con lei, né parenti né amici: doveva affrontare questa cosa da sola. Mi faceva una pena terribile.
«Ci sono passato anch’io» le dissi. «Mi hanno estratto un proiettile dalla spalla qualche anno fa. Fa paura, me lo ricordo. Ma non è niente di grave, vedrà.»
«Grazie» disse, ma non penso che mi credesse. Era terrorizzata.
«Verrò a trovarla di nuovo dopo l’intervento» le promisi, quando le porte dell’ascensore cominciarono a chiudersi.