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Quando arrivai, vidi tutti i pullman in partenza la mattina presto fermi in fila dietro Union Station.
Sampson aveva già fatto chiudere la stazione e c’era un gran viavai di agenti con il gilet arancione che indirizzavano la gente di qua e di là. L’ennesimo megacasino, ma per fortuna non toccava a me occuparmene.
Lasciai la macchina dietro Union Station e, dal livello strada, salii a piedi al primo piano dell’enorme garage riservato ai pullman. Sampson mi aspettava con due bicchieroni di caffè, uno in una mano e uno nell’altra.
«Brutta roba, Alex. Brutta proprio» mi annunciò, porgendomi il mio carburante mattutino.
Andammo verso il fondo del garage, dove c’erano alcuni grossi cassonetti della spazzatura allineati contro il muro sul lato di H Street. Erano tutti chiusi tranne uno.
«Questa è nuda» disse Sampson. «E ha i numeri sulla schiena. Vedrai. Sembra anche che sia stata accoltellata, anziché ammazzata di botte. Non è un bello spettacolo, ti avverto.»
«Pazienza» mormorai. «Forza, vediamo quello che c’è da vedere.» Mi infilai i guanti e mi avvicinai al cassonetto.
La vittima era a faccia in giù sopra i rifiuti, soprattutto sacchi di spazzatura raccolta nell’autostazione. I numeri erano stati incisi nella carne in due file parallele a lato della spina dorsale. Non si trattava di un’equazione, però.
N38°55´46.1598˝
W94°40´3.5256˝
«Coordinate GPS?» ipotizzai.
«In tal caso, sarei curioso di sapere a che località corrispondono» rispose Sampson. «L’assassino sta cambiando modo di procedere, Alex.»
«Il cadavere è stato spostato?»
«Il medico legale non è ancora arrivato. Non so come mai ci stia mettendo così tanto, ma credo che non sia il caso di aspettare oltre.»
«Sono d’accordo. Che razza di modo di cominciare la giornata, però. Forza, dammi una mano.»
Prendemmo fiato ed entrammo nel cassonetto. Tenersi in equilibrio sui sacchi di immondizia fu una vera impresa. Afferrammo la vittima e la voltammo sulla schiena, con delicatezza.
Quando la vidi in faccia, mi sentii mancare. Mi voltai, mi sporsi fuori dal cassonetto e, per la prima volta dopo tantissimo tempo, rischiai di vomitare.
«Alex, tutto bene? Cosa ti prende?» chiese Sampson, sempre sollecito.
Avevo un sapore metallico in bocca e la testa che girava per l’adrenalina che mi era entrata in circolo di colpo davanti a quella macabra sorpresa.
«È una collega, John. Dell’FBI. Te la ricordi? L’abbiamo conosciuta ai tempi del caso DCAK. Si chiama Anjali Patel.»