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All’alba avevamo una squadra tattica al gran completo all’angolo di Twenty-ninth Street e K Street. Forse era un errore presentarsi esattamente dove e quando voleva Kyle, ma siccome lo ritenevo capace di tutto, non potevo non dare peso alla sua telefonata. Avevamo preso tutte le precauzioni possibili e immaginabili.
Il posto che mi aveva indicato era ai margini del Rock Creek Park, sotto la Whitehurst Freeway.
Piazzammo agenti armati di MP5 sulla sopraelevata e una fila di furgoni corazzati della squadra SWAT lungo l’angolo, in modo da bloccare la visuale dal maggior numero di direzioni possibili.
Trasformammo in centrale operativa una caffetteria di K Street da dove il comandante dell’unità SWAT, Tom Ogilvy, poteva tenersi in contatto radio con la sua squadra. Sampson e io ascoltavamo in cuffia.
C’erano ambulanze pronte e, a un isolato di distanza in entrambe le direzioni, erano stati istituiti posti di blocco. Tutto il personale era dotato di giubbotto antiproiettile e casco.
Mi chiedevo se non stessimo facendo tutto questo per nulla. Kyle ci stava davvero spiando? Era armato? Aveva un piano? Non necessariamente.
Ma di sicuro l’aveva fatto apposta a mettermi in quella situazione di incertezza.
Gli uomini che andarono in avanscoperta, comunque, non impiegarono molto a trovare qualcosa. Meno di cinque minuti dopo essere entrati in fila nel parco dall’ingresso sulla Twenty-ninth, comunicarono via radio: «C’è un cadavere. Maschio, razza bianca, mezz’età. Dall’aspetto potrebbe essere un senzatetto».
«Massima cautela» raccomandò Ogilvy via radio, anche se tutti erano già stati avvertiti della pericolosità della situazione. «Procedete a un controllo visivo completo intorno al cadavere, prima di toccarlo. Squadra B, pronti a intervenire.»
Passarono tre minuti nel più assoluto silenzio, prima che dal parco giungesse il «via libera». Mi precipitai verso l’uscita. Stavo per aprire la porta della caffetteria, quando Sampson mi prese per un braccio.
«Lascia che vada io, Alex. Se Kyle è qui, probabilmente sta aspettando te.»
«Neanche per sogno» risposi. «A parte il fatto che, il giorno che Kyle verrà a cercarmi, sarà uno scontro faccia a faccia, non a distanza.»
«Ah, già. Perché tu sai tutto quello che c’è da sapere su quel pazzo, vero?»
«Questo lo so di sicuro» risposi, e uscii.
Riconobbi da lontano il cappotto lurido di Stanislaw Wajda. Il cadavere era steso su un fianco, mezzo nascosto sotto un cespuglio, come le sue vittime prima di lui.
Questa volta non c’erano incisioni sulla pelle. L’unica lesione visibile era una ferita da punta alla gola, simile a quella di Anjali Patel.
Il collo era completamente coperto di sangue secco, che era colato anche sotto la camicia. Significava che molto probabilmente Wajda era stato accoltellato da seduto. Ed era morto in posizione seduta.
Le impronte sul carrello della spesa e sulla mazza di Farragut Square erano già state rilevate.
Che Wajda fosse il killer dei numeri era fuor di dubbio. Ma, nonostante le atrocità di cui si era macchiato in vita, provai un moto di pietà per lui.
«Cos’è quello?» chiese Sampson indicando qualcosa nella mano del cadavere. Mi infilai i guanti e mi inginocchiai a prenderlo.
Era un bigliettino di quelli che si usano con i mazzi di fiori. Sopra vi era raffigurata una torta nuziale e, in cima alla torta, due sposini afroamericani.
«È il mio regalo di nozze» risposi, in preda alla nausea.
Quando aprii il biglietto, riconobbi subito la calligrafia di Kyle, precisa, in stampatello.
PER ALEX:
AUGURI
K.C.