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Seguirono altri due giorni di snervante calma piatta, senza grandi progressi sul fronte delle indagini: non c’era traccia di Steven Hennessey e non trovavamo nessuno che potesse conoscerlo. Poi, finalmente, all’FBI si mosse qualcosa. Mi chiamò per dirmelo di persona Max Siegel.
«È arrivata una segnalazione al sito web» disse. «È anonima, ma abbiamo verificato e sembra autentica. Un certo Frances Moulton, che a quanto pare corrisponde alla descrizione di Hennessey dalla punta dei piedi alla punta dei capelli, ha un appartamento in Twelfth Street. Erano circa due mesi che nessuno lo vedeva, ma stamattina è stato visto uscire dal portone.»
«Chi è che lo ha visto?» domandai.
«Te l’ho detto, la segnalazione è anonima» rispose Siegel. «Ma il portiere ha confermato. Erano mesi che non vedeva Moulton, ma quando gli ho mostrato la foto di Hennessey lo ha riconosciuto senza esitazione.»
Non avrei saputo dire se era davvero una scoperta eccezionale o se lo era in confronto ai buchi nell’acqua che avevamo collezionato ultimamente. A volte è difficile distinguere, quando si è disperati.
«Come vuoi procedere?» chiesi. Era stato Siegel a trovare quella pista, non noi.
«Pensavo che potevamo fare un piccolo appostamento, tu e io, vedere un po’ cosa succede» rispose. «Se ti va. L’avresti mai detto che potessi essere così collaborativo?»
Non me lo aspettavo e rimasi zitto: il mio lungo silenzio fu piuttosto eloquente.
«Non farmela cadere tanto dall’alto» disse Siegel. «Sto cercando di essere gentile.»
In effetti sembrava proprio così. Ma la prospettiva di passare otto ore o più chiuso in un’auto con Siegel non mi allettava per niente. Mi allettava ancor meno restare tagliato fuori dalle indagini, però.
«Okay» dissi. «Ci sto. Dove ci vediamo?»