34
Alle dieci e mezzo di quella sera ero sul tetto del Moore Building e guardavo la suite in cui Skip Downey aveva trovato la morte, entrando a far parte del gruppo di vittime del cecchino che imperversava a Washington.
Era la terza volta che colpiva. Tre: il numero perfetto. Ormai l’opinione pubblica sapeva di avere a che fare con un serial killer.
Connecticut Avenue era piena di furgoni di TV pubbliche e private e la blogosfera stava per entrare in fibrillazione: era inevitabile, lo sapevo.
«Mi vedi?» chiesi a Sampson via radio.
Lui era nella suite dell’albergo, nel punto esatto in cui si trovava Skip Downey quando era stato colpito.
«Muovi le braccia un momento» mi disse. «Sì, ti vedo. Ma solo se guardo attentamente.»
Sentii che qualcuno alle mie spalle si schiariva la voce.
Mi voltai e mi trovai di fronte Max Siegel. L’ultima persona al mondo che avrei voluto vedere.
«Scusa» disse. «Non volevo farti prendere un colpo.»
«Nessun problema» risposi, anche se averlo fra i piedi, effettivamente, era un problema.
«Che cosa abbiamo?» Si avvicinò a guardare dall’altra parte della strada. «Da che distanza ha sparato? Quarantacinque metri?»
«Meno» dissi io.
«Quindi non stanno cercando di superarsi. Almeno in termini di distanza.»
Notai che aveva usato il plurale e mi chiesi se fosse presente anche lui a quella teleconferenza o se ci fosse arrivato da solo.
«Per il resto, il modus operandi è il medesimo» dissi. «Il tiratore ha sparato da posizione eretta e il calibro corrisponde. Anche il profilo della vittima, ovvio.»
«Farabutti cancellati definitivamente dai titoli di testa» commentò Siegel.
«Esatto» replicai. «Downey aveva fregato un sacco di persone. Questi omicidi sono un tentativo di fare giustizia alla maniera dei vigilantes, direi.»
«Vuoi sapere cosa penso io?» chiese Siegel. Naturalmente, la sua non era una domanda. «Penso che la tua sia una semplificazione eccessiva. Non credo che abbiamo a che fare con gente che si fa giustizia da sola: non ravviso motivazioni personali. Anzi, mi sembra che agiscano con molto distacco.»
«Fino a un certo punto» replicai. «L’impronta lasciata sulla prima scena del crimine è frutto di un gesto deliberato.»
«Ammesso che lo sia, non significa che sia stata un’idea loro.»
Mi stavo scocciando dei suoi tira e molla. «Dove vuoi arrivare?»
«Non ti sembra evidente?» disse. «Questi lavorano su commissione. C’è dietro un mandante. Può anche darsi che ci sia una programmazione dietro agli omicidi, ma non è degli esecutori: è di chi li paga. È lui – o lei – a volere morta questa gente.»
Sembrava molto sicuro della sua teoria, come sempre. Non era del tutto campata per aria, in effetti. Mi riproposi di rifletterci. Uno a zero per Max Siegel.
«Mi sorprende» gli confessai. «In genere il Bureau si attiene ai fatti ed evita qualsiasi tipo di supposizione.»
«Lo so, sono un tipo sorprendente» replicò. Poi, dandomi una pacca sulla spalla che non gradii affatto, aggiunse: «Se posso permettermi, caro collega, devi cercare di essere di vedute un tantino più larghe».
Mi risentii moltissimo della sua osservazione, ma cercai di essere obiettivo, imparziale e superiore: cioè tutto quello che a lui riusciva assolutamente impossibile.