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Regnava il silenzio, quando arrivai alla sezione Dattiloscopia. Nel laboratorio c’era soltanto un tecnico che faceva parte del personale civile e si chiamava Bernie Stringer, soprannominato Strings. Ascoltava musica heavy metal a tutto volume sull’iPod, mentre lavorava, e riuscivi a sentirla nonostante avesse le cuffie.
«Spero non sia urgente!» gridò. Poi si tolse uno degli auricolari. «La Narcotici mi sta già facendo sudare sangue.» Sul bancone aveva due scatole piene di campioni da esaminare.
«Ho solo bisogno che mi rilevi le impronte da questa» dissi tenendo la lattina di Coca-Cola per il bordo con la punta delle dita.
«Stasera?» disse.
«Sì. Anzi, subito.»
«Se ti serve subito, conviene che te lo fai tu. Il cianoacrilato è nel cassetto vicino alla camera di fumigazione.»
Per me non era un problema. Mi piace cimentarmi nelle analisi di laboratorio, ogni tanto: mi fa sentire intelligente, anche se il rilievo delle impronte digitali è solo l’ABC della scienza forense.
Aprii la camera di fumigazione e vi misi dentro la lattina. Poi versai qualche goccia di cianoacrilato, che in realtà è comunissima supercolla, chiusi lo sportello e feci scaldare il tutto per un po’.
Dopo circa un quarto d’ora, sulla lattina erano comparse quattro belle impronte. C’era anche una zampata di Sampson, ma bastavano le dimensioni per distinguere le sue impronte dalle altre.
Cosparsi di polvere nera quelle che mi interessavano e scattai qualche foto per ogni evenienza.
Fatto questo, si trattava semplicemente di prelevare le impronte con il nastro adesivo trasparente e trasferirle su una scheda cartacea per la scansione.
«Ehi, Strings!» gridai. «Posso usare il tuo computer?»
«Accomodati! La password è C-U-L-O-N-E.»
«Davvero appropriata.»
«Eh? Come sarebbe?»
«Niente, niente.»
Una volta immesse le impronte nel computer, il database IAFIS impiegò circa mezz’ora per propormi quattro candidati compatibili. Spesso il raffronto finale viene fatto visivamente da un operatore. E questo è un bene, perché contribuisce a mantenere più umana la procedura.
Non mi ci volle molto per confermare una delle quattro corrispondenze.
L’arco a tenda sull’indice sinistro del nostro uomo era molto caratteristico.
Con pochi comandi sulla tastiera, scoprii il nome del barbone e i suoi precedenti penali.
Si chiamava Stanislaw Wajda.
Ecco perché aveva un accento straniero. Era stato arrestato una sola volta, per violenza domestica, a College Park, nel Maryland, un anno e mezzo prima. Niente di particolarmente grave, all’apparenza.
Invece mi ero appena imbattuto in un assassino.