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Procediamo con ordine, si disse. Aprì la porta della cantina, che era chiusa a chiave, e scese la scala che portava nel seminterrato adibito a laboratorio. Le pareti erano di cemento nudo, nulla di paragonabile alla tavernetta di suo padre, che aveva le pareti rivestite di legno di noce e un caminetto largo quattro metri. Ma era funzionale allo scopo e andava benissimo anche così. Grazie alla grande porta esterna all’altro capo del seminterrato, qualche giorno prima aveva potuto calarci un nuovo congelatore orizzontale. Andò ad aprirlo.

Dentro c’era l’agente Patel che dormiva beatamente. Era sempre lei, anche se un tantino più rigida. Non molto diversa da come era da viva, insomma.

«Sei pronta a cambiare aria, cara?»

La tirò fuori e la distese su un robusto telo di plastica perché si scongelasse mentre lui si occupava d’altro. Gli tornò in mente la sua non molto amata ma del tutto defunta madre, Miriam, che la mattina tirava fuori dal freezer un pacco di braciole di maiale o una bella bistecca e li lasciava sul bancone della cucina a scongelare per cucinarli la sera per cena. Non poteva negare di aver imparato qualcosa di utile da lei.

La seconda cosa a cui doveva pensare erano le pareti. Vi aveva appeso decine e decine di foto, nuove e vecchie, frutto di intere giornate di tediosissima sorveglianza di Cross e dei suoi movimenti. Non era stata la parte più avvincente dell’impresa, fino a quel momento, ma aveva dato buoni risultati.

Ecco Alex Cross e John Sampson all’opera sulla scena del nuovo caso di Franklin Square, intricato in un modo meraviglioso.

Ed ecco Alex con il figlio Ali e Christine, la madre, che aveva aggiunto una buona dose di agitazione ed emozioni alla vita di Cross in quel periodo.

Staccò dai muri foto, cartine geografiche, ritagli di giornale e tutto quello che aveva raccolto da quando era arrivato a Washington. Non ne aveva più bisogno. Aveva imparato ogni cosa a memoria. E comunque era giunto il momento di spiccare il volo e di improvvisare sulla base di quello che aveva memorizzato.

Un tempo avrebbe pianificato tutto fin nei minimi dettagli: ne avrebbe avuto bisogno. Adesso invece era cambiato. Le occasioni gli si presentavano spontaneamente, come frutti maturi in attesa di essere colti.

La storia poteva andare a finire più o meno così: Alex si sveglia nel bagno, seduto per terra, con il coltello ancora in mano. Si alza, completamente disorientato, e va barcollando in camera sua, dove trova Bree uccisa a coltellate nel letto. Corre a vedere come stanno i figli e trova morti anche loro, in un lago di sangue. Idem la nonna. Non ricorda niente, nemmeno come ha fatto a tornare a casa la sera prima. Un paio d’anni dopo, lo troviamo in un carcere di massima sicurezza a soffrire le pene dell’inferno sapendo di essere innocente, ogni giorno sempre più disperato.

Ma il finale poteva anche essere diverso.

Non era escluso che Kyle uccidesse Cross una volta per tutte. L’idea di torturarlo e dargli una morte lenta cui assistere minuto per minuto lo allettava non poco.

Per il momento, comunque, non aveva particolare fretta di scegliere fra quei possibili esiti. Per il momento doveva soltanto vivere la vita di Max Siegel, non precludersi nessuna possibilità e concentrarsi su ciò che aveva sotto gli occhi.

E sotto gli occhi, in quel preciso istante, aveva l’agente Patel.

Quando tornò a darle un’occhiata, si era leggermente ammorbidita. Perfetto. Prima che cominciasse a puzzare, se ne sarebbe sbarazzato.

«È stato bello, finché è durato, tesoro» le sussurrò e si chinò a darle un casto bacio sulle labbra. Poi la fece rotolare in un sacco mortuario bianco e lo chiuse.

Il ritorno del killer
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