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Chiamai Rakeem Powell e gli ordinai ulteriori misure di sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro per la mia casa e la mia famiglia. Ero pronto a indebitarmi, se necessario. In quel frangente non erano i soldi a preoccuparmi. Non sapevo bene quali altre mosse avesse in mente Kyle prima di portare a termine il suo gioco perverso, ma non intendevo stare ad aspettare il suo prossimo attacco.
Passai quasi tutta la giornata allo Hoover Building. La notizia della morte di Anjali Patel aveva rattristato tutti: l’unico posto in cui non c’era un’atmosfera da camera mortuaria era il SIOC, lo Strategic Information and Operations Center. Lì ferveva l’attività.
Il direttore dell’FBI in persona, Ron Burns, ci mise a disposizione la sua sala operativa riservata. La caccia a Kyle Craig era ripresa alla grande. Non ero l’unico ad avercela con lui: la vicenda Craig era uno dei più grossi scandali interni mai visti al Bureau. E adesso aveva ucciso una collega, forse anche per vendicarsi di tutto l’FBI.
Tutti i posti intorno ai due tavoli a ferro di cavallo della sala erano occupati. Sui cinque schermi principali, appesi alla parete in fondo, scorrevano foto e vecchi video di Kyle, mappe degli Stati Uniti e del resto del mondo su cui erano evidenziati i suoi spostamenti noti e i luoghi in cui aveva ucciso le sue vittime o aveva dei contatti.
Passammo la giornata in collegamento costante con Denver, New York, Chicago, Parigi, città in cui si sapeva che Kyle era stato dopo l’evasione dal carcere di massima sicurezza di Florence, Colorado. Tutte le sedi FBI del Paese erano in stato di massima allerta.
Ciononostante, nessuno aveva la più pallida idea di dove si potesse trovare Kyle Craig.
«Non so che cosa dirle, Alex» ammise Burns camminando avanti e indietro. Avevamo appena concluso una lunghissima teleconferenza. «Non abbiamo in mano nulla. Non ci sono prove che sia stato Craig a uccidere Tambour o la Patel. Non sappiamo neppure se sia a Washington. Nessun indizio neanche su quella Beretta che ha voluto riesaminare.»
Si riferiva alla Beretta usata da Bronson James nel suo tragico tentativo di rapina a mano armata. Inizialmente avevo pensato che gliel’avesse data qualche gang, ma adesso mi era venuto il dubbio che gliel’avesse messa in mano proprio Kyle Craig. Sapevo che aveva la passione delle Beretta. E lui sapeva che io ne ero a conoscenza.
«La prova sono io» dissi. «Mi ha telefonato. Mi ha fatto delle minacce. Ce l’ha con me, Ron. Secondo lui, sono l’unico ad averlo battuto e questo non riesce a sopportarlo, perché è estremamente competitivo.»
«E i suoi cosiddetti ’discepoli’? Parlo per ipotesi, naturalmente.» Burns si rivolgeva non solo a me, ma anche a una decina di altri agenti che prendevano appunti e consultavano i loro portatili mentre lui parlava. «Ha molti fan, alcuni dei quali si proclamano disposti a morire per lui. Non potrebbe aver affidato a loro il compito di commettere questi omicidi?»
«Non credo proprio. Questi omicidi sono messaggi trasversali rivolti a me» ribattei. «Sono abbastanza sicuro che Kyle li abbia voluti compiere di persona.»
«Comunque sia...» replicò Burns smettendo di camminare avanti e indietro per andarsi a sedere. «Che Craig abbia commesso personalmente questi omicidi o li abbia commissionati a terzi, per noi poco cambia. Continuiamo a studiare le scene del crimine, non abbassiamo la guardia e cerchiamo di farci trovare pronti, la prossima volta che colpirà.»
«Non basta, per Dio!» sbottai, gettando per terra tutti i miei appunti e facendo cadere dalla scrivania anche qualche foglio dei colleghi seduti accanto a me. Mi pentii in quello stesso istante di aver perso il controllo, chiesi scusa e mi chinai a raccogliere i fogli per terra.
Anche Burns si chinò, mi prese per un braccio e mi aiutò a rialzarmi. «Faccia una pausa. Vada a casa, mangi qualcosa, cerchi di dormire un po’. Non c’è nulla di urgente, in questo momento.»
Aveva ragione. Ero esausto, mi vergognavo un po’ e avevo decisamente bisogno di riposare. Finii di raccogliere la mia roba e uscii dalla sala.
Mentre aspettavo l’ascensore, sentii vibrare il telefono. Era l’ennesima volta che capitava, quel giorno. Avevo ricevuto mille chiamate dal dipartimento, da Sampson, da Bree, da Nana...
Questa volta sul display apparve una strana scritta: «Un. Amico».
«Pronto» dissi, voltandomi per tornare subito nella sala operativa.
«Ciao, Alex.» Era Kyle Craig. «La festa è cominciata.»