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Kyle mi tirò un pugno in faccia e mi fece male. Non risposi con un altro pugno, però. Non potevo: con una mano gli avevo afferrato un polso e con l’altra stringevo la pistola nascosta sotto l’asciugamano.
Così gli diedi una testata, più forte che potevo, più o meno dove lo avevo colpito con la brocca. Bastò per fargli allentare la presa sulla pistola. Una Beretta nove millimetri. La pistola di Max Siegel.
Indietreggiai strisciando sul pavimento, tenendogli l’arma puntata in mezzo agli occhi, mentre lui se li sfregava disperatamente, accecato dal sangue che gli colava dalle ferite.
«A terra!» gridai, alzandomi in piedi. «A faccia in giù, con le mani lontano dal corpo!»
Kyle sorrise. Aveva gli occhi pieni di sangue e di lacrime, ma ci vedeva ancora.
«Avrei giurato che mentivi, quella notte in macchina» disse. «Invece è proprio vero che non riesci a premere il grilletto, eh?»
«Senza motivo, no» replicai. «Quindi o me ne dai uno per sparare, oppure ti sdrai a terra a faccia in giù. Subito!»
«Sai che mi dispiace dirtelo, Cross, ma... fottiti!»
Si buttò a terra, ma troppo in fretta, e un coccio di vetro che stringeva nella mano volò nella mia direzione. Sentii una fitta al polpaccio e mi cedette un ginocchio. Persi l’equilibrio prima ancora di capire che cos’era successo.
Kyle, intanto, si era rialzato in piedi.
Uscì dalla stanza barcollando. Probabilmente fu proprio l’andatura incerta a salvargli la vita. L’unico colpo che riuscii a sparare, infatti, centrò la porta scorrevole invece che la sua testa. Un attimo dopo, Kyle saltò giù dalla terrazza e si dileguò.