20

La vita va avanti, che lo si voglia o meno.

Dopo aver accompagnato i ragazzi a scuola, andai al St. Anthony in tempo per il secondo appuntamento della giornata. Purtroppo avevo dovuto annullare il primo. Facevo volontariato in ospedale, da quando avevo chiuso lo studio privato. C’erano molte persone in difficoltà che avevano bisogno di supporto psicologico e non se lo potevano permettere ed ero ben contento di dare il mio piccolo contributo. Peraltro, serviva anche a me, per non perdere l’allenamento.

Nello studio che mi era stato messo a disposizione, piccolo e umido, entrò con aria strafottente Bronson James, detto «Pop-Pop». L’avevo conosciuto quando aveva undici anni; adesso era un po’ più grande e più sicuro nel suo atteggiamento cinico e disincantato nei confronti del mondo.

Da quando lo seguivo, gli erano morti due amici e parecchi altri piccoli delinquenti suoi coetanei, che lui considerava eroi.

A volte mi sembrava di essere l’unico a volergli bene. Era un ragazzo difficile, e cercare di riportarlo sulla retta via era molto complicato.

Si sedette sul divanetto in finta pelle di fronte a me e guardò il soffitto, ignorandomi.

«È successo qualcosa di nuovo, dall’ultima volta che ci siamo visti?» gli chiesi.

«Anche se succedeva, mica te lo posso venire a dire a te» rispose. «Perché c’hai sempre qualcosa di Starbucks, quando vengo qui?»

In effetti avevo una tazza termica di Starbucks in mano. «Perché me lo chiedi? Vorresti un caffè?»

«Nah. Non ne bevo, io. Mi fa schifo. Di Starbucks mi piace solo il Frappuccino.»

Capii che gli avrebbe fatto piacere che gliene portassi uno, la prossima volta. Era uno dei rari momenti in cui si intravedeva il ragazzino dietro la maschera da bullo di periferia che portava giorno e notte.

«Prima hai detto che di certe cose pensi di non potermi parlare. Vuol dire che è successo qualcosa?»

«Se ti dico che non te ne posso parlare, vuol dire che non te ne posso parlare, no?»

Muoveva nervosamente le gambe e sottolineava le parole dando pedate alla piccola scrivania dello studio.

Era il tipico adolescente su cui gli psicologi scrivono articoli per le riviste scientifiche e dibattono ai convegni: del tutto privo di empatia nei confronti del prossimo e impermeabile a qualsiasi approccio terapeutico. L’incapacità di immedesimazione è uno dei sintomi che possono sfociare con il tempo in un disturbo antisociale della personalità – quello di Kyle Craig, per intenderci – e favorire la messa in atto degli impulsi violenti. Per Bronson era difficilissimo trattenersi dal metterli in atto.

Ma io conoscevo anche il segreto di Pop-Pop: sotto la scorza dura del ragazzo di strada e i problemi mentali si nascondeva un bambino che non capiva la ragione del suo malessere. Affidato prima a una famiglia e poi a un’altra, rimbalzato fra servizi e assistenti sociali, meritava qualcosa di più dalla vita, povero ragazzo. Io ne ero convinto e per questo lo vedevo due volte alla settimana.

Ritentai. «Sai che tutto quello che mi dici qui dentro è protetto dal segreto professionale, vero?»

«A meno che io non costituisca un pericolo per me stesso» recitò a memoria. «O per gli altri» aggiunse, con un sorrisino. Sentiva di avere un certo potere, e gli piaceva.

«Sei un pericolo per qualcuno?» gli domandai. Temevo che finisse in una gang. Non aveva tatuaggi o lesioni particolari, tipo ustioni, lividi o altri segni di qualche rito di iniziazione, ma in quel periodo abitava vicino a Valley Avenue, dove imperversavano le bande rivali di Ninth Street e Yuma.

«No, tranquillo» disse, con convinzione. «Si parla e basta.»

«E con quale gang parli e basta? Ninth Street o Yuma?»

Stava per perdere la pazienza. Mi guardò malissimo e io rimasi zitto, sperando che mi dicesse qualcosa. Invece si alzò e rovesciò la scrivania per avvicinarsi minacciosamente alla mia faccia. Fu un cambiamento a dir poco repentino.

«Non mi rompere i coglioni, capito? Smettila di guardarmi in quel modo.»

Fece per darmi un pugno.

Come se non si rendesse conto di essere molto più piccolo di me. Lo bloccai e lo costrinsi a risedersi, tenendolo per le spalle. Ciononostante, lui ci riprovò.

Lo feci di nuovo sedere di peso sul divano. «Non è proprio il caso, Bronson. Toglitelo dalla testa.» Mi dispiaceva avergli dovuto mettere le mani addosso, ma aveva passato il segno. Forse non sapeva nemmeno dov’era il segno. Era questa la cosa che mi spaventava di più.

Lo vedevo sull’orlo del burrone e non ero sicuro di riuscire a fermarlo.

Il ritorno del killer
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