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Povera Anjali...

Com’era successo, maledizione? Com’era potuto succedere?

Quando la vittima di un omicidio è una persona che conosciamo, è inevitabile farsi delle domande, tanto più in un caso così brutale: Anjali si era accorta di quello che stava per succederle? Aveva avuto paura? Quanto aveva sofferto? Era morta velocemente?

Mi ripetei più volte che quelle incisioni così precise dovevano essere state praticate post mortem, ma era una magra consolazione in quel momento. La cosa migliore che potevo fare per Anjali Patel era concentrarmi sul mio lavoro ed esaminare la scena del crimine nella maniera più obiettiva possibile.

Prima di tutto, telefonai all’Istituto di medicina legale per accertarmi che assegnassero il caso a Porter Henning e anche per capire come mai ci stavano mettendo così tanto. Sarebbero dovuti essere già lì. Io c’ero, no?

Sampson trascrisse i numeri che avevamo visto sulla schiena di Anjali e tirò fuori il BlackBerry per vedere se riusciva a capire che cosa volevano dire.

Quando ebbi finito di parlare con Porter, che era imbottigliato nel traffico sulla Eisenhower Freeway, John mi fece segno di andare a vedere.

«Guarda qua, Alex. Non so se c’entra qualcosa.» Mi mostrò una mappa sul display. «È un indirizzo di Overland Park, nel Kansas. Mi sembra così strano. Forse è una formula matematica, invece.»

«Cosa c’è a quell’indirizzo? Hai provato a guardare?» chiesi.

«Ci sto provando.» Ma era lento, aveva le dita troppo grosse per una tastiera così piccola. Non è un caso se Sampson non manda mai SMS. «Ecco, ce l’ho fatta. È un ristorante» annunciò finalmente. «Si chiama KC Masterpiece Barbecue and Grill.»

Sampson scuoteva la testa perplesso, ma a me venne un colpo. Lui se ne accorse, perché mi agitò una mano davanti agli occhi e mi chiese: «Alex? Cosa t’è preso, Alex?»

Stringevo i pugni e avevo una gran voglia di picchiare qualcosa o qualcuno. «Dovevo immaginarlo» recriminai. «È così che ragiona quel bastardo figlio di puttana.»

«Con chi ce l’hai?»

Poi, di colpo, capì.

«Oh Gesù!»

Tutto tornava, ed era la spiegazione peggiore che ci potesse essere. Dopo il fucile Alex-338 della sera prima, adesso anche KC Masterpiece.

Il capolavoro di Kyle Craig.

Non era la prima volta che Kyle Craig lasciava sulla scena del crimine allusioni e indizi simbolici di quel genere perché si sapesse che era «merito» suo. Quelle due stoccate nei miei confronti, quei riferimenti ai due casi su cui stavo indagando significavano che era stato Kyle a uccidere – o a far uccidere – Tambour, con lo stile dei cecchini, e Anjali Patel, con quei numeri brutalmente incisi sulla pelle.

Poi, sgomento, mi resi conto di un’altra cosa ancora: Bronson James, detto Pop-Pop, il mio giovane paziente, era morto durante un tentativo di rapina in un negozio. Una bottiglieria che si chiamava Cross Country Liquors. Come avevo fatto a non pensarci prima?

Era tutto collegato. Kyle mi stava girando intorno, il cerchio si stringeva sempre di più e ogni volta la mia nemesi faceva sempre più danni. Non solo non colpiva alla cieca, ma i suoi atti efferati erano sempre più mirati e, se non mi sbagliavo, sempre più personali.

Voleva punirmi per averlo mandato in galera.

Il ritorno del killer
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