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Per la seconda giornata di ricerche in dormitori e centri di accoglienza, feci quello che avrei dovuto fare fin dal principio, e cioè coinvolsi altri del mio team, compreso Sampson. Mi rassegnai addirittura ad accettare l’aiuto di Max Siegel e lo chiamai per sentire se aveva qualcuno da mettermi a disposizione.

Siegel mi sorprese presentandosi di persona, insieme con due assistenti giovani e volenterosi. Ci dividemmo l’elenco delle strutture e ci demmo appuntamento verso sera, in modo da assistere tutti insieme alla distribuzione dei pasti e dei letti in uno dei centri di accoglienza più grandi, il Lindholm Family Services.

Alle cinque del pomeriggio, quando aprirono le porte della mensa, eravamo tutti lì. Il Lindholm serviva oltre mille pasti al giorno ed era frequentato da una clientela molto varia. C’erano le categorie di persone che chiunque si aspetterebbe di trovare in un posto simile, ma anche altre meno prevedibili: famiglie con bambini, gente che parlava da sola, persone che sembravano appena uscite dall’ufficio. Tutti seduti a mangiare a lunghe tavolate.

La prima ora fu una frustrante ripetizione dell’esperienza che avevo avuto il giorno precedente. Molti si rifiutavano di parlare con la polizia, e nessuno di quelli che erano disposti a rivolgermi la parola riconobbe la foto di Mitch, o la vecchia fototessera di Steven Hennessey, alias Denny.

Notai un tipo seduto in fondo a una panca, di spalle, con il vassoio in equilibrio sull’angolo del tavolo. Sembrava particolarmente assorto, chiuso in un mondo tutto suo. Mi avvicinai e sentii che borbottava fra sé.

«Posso parlarle un attimo?» chiesi.

L’uomo smise di muovere le labbra, ma non alzò neppure la testa. Tenni la foto all’altezza dei suoi occhi, in modo che la vedesse lo stesso.

«Stiamo cercando di metterci in contatto con questo ragazzo. Si chiama Mitch Talley. C’è stato un lutto nella sua famiglia. Bisogna avvertirlo.»

Era una di quelle mezze bugie che bisogna rassegnarsi a dire, a volte, se si vuole ottenere qualcosa. Per lo stesso motivo, eravamo tutti in borghese e vestiti molto casual: giacca e cravatta possono essere controproducenti, in posti come quello.

L’uomo scosse la testa e rispose un po’ troppo in fretta: «No. No, mi dispiace. Non lo conosco». Aveva un forte accento straniero che mi parve dell’Europa dell’Est.

«Guardi bene» insistetti. «Mitch Talley. Di solito è con un certo Denny. Non le viene in mente niente? Cerchi di aiutarci, per piacere.»

L’uomo osservò ancora un po’ la foto accarezzandosi pensieroso la barba sale e pepe, lunga e infeltrita.

«No» ripeté poi, sempre senza alzare lo sguardo. «Mi dispiace. Non lo conosco.»

Non insistetti oltre. «Okay» dissi. «Io resto qui in giro ancora per un po’. Se le viene in mente qualcosa...»

Appena mi allontanai, l’uomo ricominciò a borbottare. L’istinto mi disse che dovevo tenerlo d’occhio.

Manco a farlo apposta, appena cominciai a parlare con un’altra persona, l’uomo si alzò da tavola e si avviò verso la porta lasciando lì il vassoio con la cena quasi intatta.

«Scusi?» dissi, abbastanza forte da attirare l’attenzione di vari commensali. Non quella dell’uomo che parlava da solo, però, che tirò dritto.

«Ehi, lei!»

Anch’io mi alzai e mi incamminai. Sampson se ne accorse. Era chiaro che il tipo stava tagliando la corda. Quando finalmente si voltò e vide che lo stavamo seguendo, si mise a correre. Spalancò la porta e si precipitò in Second Street.

Il ritorno del killer
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