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Il killer dei numeri. Oh mio Dio, no! Non adesso...
Quando arrivai in Franklin Square, tutti gli accessi erano già stati sbarrati. Parcheggiati in K e I Street, lungo il parco rettangolare al centro della piazza, c’erano vari mezzi della polizia, ma l’attività sembrava concentrata in Thirteenth Street, dove vidi Sampson che si sbracciava.
«Sugar» disse appena mi avvicinai. «Grazie di essere venuto a quest’ora indecente, mio salvatore.»
«Andiamo a vedere.»
All’interno della zona delimitata dal nastro erano al lavoro due tecnici della Scientifica in giacca a vento blu, oltre a un medico legale che non ebbi difficoltà a riconoscere benché fosse girato di spalle.
Porter Henning è soprannominato «il Colosso». In confronto a lui, quella montagna d’uomo che è Sampson pare un fuscello. Non sono mai riuscito a capire come faccia Porter a lavorare su certe scene del crimine particolarmente anguste, ma è uno degli anatomopatologi più in gamba che io conosca.
«Perbacco! Il grande Alex Cross ci degna della sua presenza» esclamò nel vedermi arrivare.
«Prenditela con lui» ribattei allegramente indicando Sampson. Poi però vidi la vittima e rimasi impietrito.
Dicono che l’horror sia la mia specialità, e in un certo senso è vero, ma le mutilazioni umane sono una cosa a cui non è possibile fare il callo. La vittima giaceva a faccia in su, seminascosta in un cespuglio. Dagli indumenti luridi che aveva addosso si capiva subito che era un senzatetto e che probabilmente dormiva lì nel parco. Presentava segni di violente percosse, ma la cosa più impressionante erano i numeri che aveva incisi sulla fronte. Come nel caso precedente, era una scena di una stranezza quasi surreale.
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«Sono gli stessi numeri dell’altra volta?» chiesi.
«Simili, ma non proprio gli stessi» rispose Sampson.
«E sull’identità della vittima non sappiamo niente, giusto?»
John confermò con un cenno del capo. «Ho mandato degli agenti a chiedere in giro ma, appena li hanno visti arrivare, i barboni che dormivano sulle panchine del parco se la sono svignata. Non si fidano granché di noi, sai?»
Sì, lo sapevo. Era uno dei motivi per cui le indagini sulla morte di un senzatetto si rivelavano sempre così complicate.
«C’è anche quel dormitorio per i poveri in Thirteenth Street» continuò John. «Appena ho finito qui, ci vado e chiedo se lo conoscevano.»
Era una scena del crimine piuttosto complicata. C’erano impronte fresche, di scarpe con la suola liscia, non da ginnastica né scarponi. Notai anche dei solchi paralleli che potevano essere stati lasciati da un carrello della spesa e forse non avevano nulla a che fare con le impronte. Il parco era pieno di poveracci che trasportavano tutti i loro averi dentro un carrello. Passavano di lì a tutte le ore, tutti i giorni, anche di notte.
«C’è altro?» chiesi. «Porter? Hai scoperto qualcosa?»
«Che sto invecchiando. A parte questo, niente di che. Solo che la causa del decesso sembra uno pneumotorace a valvola e che i primi colpi probabilmente sono stati inferti qui, qui e qui.»
Indicò un lato della testa del morto, che aveva il cranio fracassato e l’orecchio pieno di liquido rossastro. «Frattura della base cranica, della mandibola, dell’arco zigomatico eccetera eccetera. L’unica consolazione è che probabilmente era strafatto, quando lo hanno ammazzato: ha le braccia piene di buchi.»
«Come l’altra vittima» commentò Sampson. «Deve averle ammazzate la stessa persona.»
«E i tagli sulla fronte?» Erano stati praticati con un coltello, e con estrema precisione. Erano poco profondi e puliti, e i numeri erano perfettamente leggibili. «Cosa ne pensi, Porter? Un parere al volo.»
«Aspetta» rispose. «Questo è niente: ti faccio vedere il vero capolavoro.»
Si chinò, girò l’uomo su un fianco e gli sollevò la camicia per farmi vedere la schiena.
«Che roba...»
L’equazione occupava tutta la schiena, dal girovita fino alle scapole. Non avevo mai visto nulla di simile. Non in un contesto come quello, perlomeno. Sampson fece cenno al fotografo di avvicinarsi per scattare qualche primo piano.
«Questa è una novità» disse John. «L’altra volta i numeri erano solo sulla faccia. Mi chiedo se nel frattempo si sia esercitato su altri cadaveri che non abbiamo trovato.»
«Be’, questo voleva sicuramente che lo trovassimo» osservò Porter. «Perché non c’è abbastanza sangue rispetto all’entità dei traumi. Lo ha ammazzato altrove, lo ha portato qui e poi si è dedicato con tutta calma al lavoro di lama.»
Il fotografo cominciò a canticchiare la sigla di Ai confini della realtà, ma Sampson lo zittì con un’occhiataccia. «Scusate, scusate... Caspita! Sono contento di non fare il vostro mestiere, oggi.»
Non era il solo.
«Quindi la domanda è: perché l’assassino l’ha portato qui?» disse Sampson. «Che cosa sta cercando di dirci? A noi o a qualcun altro?»
Porter si strinse nelle spalle. «Qualcuno è laureato in matematica?»
«Io conosco una professoressa della Howard University» risposi. «Sara Wilson. Te la ricordi?» John fece di sì con la testa, senza smettere di osservare la formula sulla schiena del morto. «Posso farle una telefonata, se vuoi. Magari oggi pomeriggio le andiamo a parlare.»
«Sì, grazie. Sarebbe utile.»
Ecco che la mia non era già più una breve consulenza. Non avevo tempo per occuparmi anche di questo caso ma, ora che avevo visto di che cosa era capace quell’assassino, volevo contribuire a catturarlo a ogni costo.