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Poco dopo il mio arrivo, comparvero anche i primi agenti federali. Da una parte ero contento, perché le Evidence Response Team erano dotate di alcune delle attrezzature migliori che esistessero. Dall’altra, ero sconfortato: mi sarei ritrovato fra i piedi Max Siegel.
E infatti ci incontrammo davanti al cadavere di Nelson Tambour.
«Più che un foro d’uscita, questo sembra un cratere!» commentò con la sua solita mancanza di sensibilità. «Ho sentito dire che era corrotto. È vero? Non importa, tanto lo scoprirò lo stesso.»
Ignorai la sua domanda, rispondendo invece a quella che sarebbe stato più logico mi facesse. «L’assassino ha sparato da lontano, questo è certo» dissi. «Non ci sono segni di ustione o di tatuaggio. E, vista la posizione del cadavere, i colpi devono essere arrivati da là.»
Di fronte a noi, a circa duecentocinquanta metri dalla riva del fiume, si vedevano i fasci delle torce degli agenti che stavano perlustrando Roosevelt Island. Avevamo mandato due squadre in cerca di bossoli, impronte sospette o altre prove fra la vegetazione bassa dell’isola in mezzo al Potomac.
«Hai detto ’colpi’? Al plurale?» chiese Siegel.
«Già.» Indicai il pendio dietro al punto in cui era caduto Tambour. C’erano quattro bandierine gialle conficcate nel terreno, una per ciascuno dei proiettili recuperati fino a quel momento.
«Tre colpi a vuoto e uno a segno» dissi con un sospiro. «Non sono sicuro che siano gli stessi cecchini.»
Siegel scrutò a lungo il terreno tra la riva del fiume e il corpo di Tambour. «Potrebbero avere sparato da una barca o qualcosa di simile. Le acque del fiume sono piuttosto agitate oggi. Questo potrebbe spiegare il maggior numero di colpi e la minor precisione.»
«Troppa visibilità» replicai. «Il rischio che qualcuno li vedesse era altissimo. E poi non avevano mai sbagliato. Un colpo, un morto.»
«È il motto dei tiratori scelti» commentò Siegel. «E con questo?»
«Penso che ne facciano un punto d’onore. Da un certo punto di vista, hanno sempre svolto un lavoro impeccabile. Fino a oggi.»
«Quindi ti sembra più probabile che ci sia un altro pazzo armato di fucile di precisione?»
Dal tono di voce traspariva chiaramente il suo disprezzo. Ci risiamo, sembrava che stesse dicendo.
«Avevate messo in conto questa eventualità, mi risulta» dissi. «Così mi ha detto Anjali Patel, alla riunione a cui tu non sei venuto.»
«Capisco.» Siegel dondolava avanti e indietro sulle piante dei piedi. «Dimmi: hai formulato nuove ipotesi in questi giorni, o vai avanti con quelle che senti ventilare in sede?»
Mi provocava perché si sentiva minacciato e avrebbe voluto che reagissi in maniera poco professionale, credo. Ma io mi astenni e feci marcia indietro, con molta prudenza, concentrandomi sull’esame del terreno intorno al cadavere di Tambour.
Quando capì che non avrei risposto alla provocazione, Siegel tornò all’attacco.
«Sai, può darsi che questi siano ancora più in gamba di quello che pensiamo» disse con nonchalance. «La regola numero uno dei terroristi è essere imprevedibili. Potrebbero averlo fatto apposta...»
«Non escludo nessuna ipotesi» dissi, senza nemmeno alzare la testa.
«Bravo» ribatté. «Hai imparato la lezione, quindi. Perché è così che ti ha fregato Kyle Craig, non è vero?»
Questa volta alzai la testa di scatto.
«È stato più furbo di te, cambiando continuamente le regole del gioco, no? Se non erro, continua ancora a cambiarle» disse Siegel stringendosi nelle spalle. «O mi sbaglio?»
«Sai cosa ti dico, Max? Falla finita.» Mi alzai e lo guardai in faccia, avvicinandomi più del necessario. Mi ero stufato di cercare di «gestire» Siegel. Volevo dirgli quello che pensavo, punto e basta.
«Non so che problemi irrisolti tu abbia, ma posso consigliarti degli ottimi terapeuti. Nel frattempo, però, non so se ti sei accorto che oggi abbiamo perso un collega. Cerca di portare un po’ di rispetto.»
Doveva essere la reazione che cercava, perché fece un passo indietro e sorrise in quel suo modo odioso.
«D’accordo. Mi trovi là, se hai bisogno di me» disse, indicando un punto alle sue spalle.
«Non ho bisogno di te» risposi, rimettendomi al lavoro.