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Erano mesi che Kyle Craig non uccideva un uomo. Un tempo, era uno di quelli che pretendono sempre di avere tutto e subito, se non prima ancora. Adesso non più. Se aveva imparato qualcosa nei lunghi anni di isolamento nel penitenziario di massima sicurezza di Florence, Colorado, era che per realizzare i propri obiettivi bisognava aspettare.
Perciò stette pazientemente seduto nell’atrio della casa della sua vittima designata, a Miami, con l’arma in grembo, a guardare le luci del porto. Non aveva particolarmente fretta e si godeva il panorama. Forse stava imparando a godersi la vita, dopo tutto. Aveva l’aria rilassata: jeans sbiaditi, sandali e maglietta con la scritta CONSIDERALO UN AVVERTIMENTO.
Alle due e dodici minuti, sentì girare una chiave nella serratura e si alzò in piedi. Si appoggiò con la schiena al muro e rimase in silenzio, immobile come una statua.
Max Siegel entrò fischiettando. Kyle riconobbe la melodia: Pierino e il lupo, la parte suonata dagli archi. Pierino che va a caccia del lupo. Che ironia!
Aspettò che Siegel chiudesse la porta e avanzasse di un paio di passi nell’appartamento ancora buio. Poi posizionò il mirino laser e premette il grilletto. «Buonasera, signor Siegel» disse. «Mi fa molto piacere vederla.»
Siegel venne colpito alla schiena da un getto di soluzione salina sparato da uno storditore elettrico. Investito da una scarica di cinquantamila volt, strinse i denti e gemette. Le sue spalle ebbero un sussulto, poi il suo corpo si irrigidì e cadde a terra come un albero abbattuto.
Kyle Craig non ebbe un attimo di esitazione. Gli passò intorno al collo tre giri di filo di nylon e lo trascinò per terra, facendogli assorbire la soluzione salina rimasta sul pavimento, fino al bagno principale in fondo al corridoio. Troppo debole per opporre resistenza, Siegel cercava di usare le poche forze rimaste per impedire che il filo di nylon gli premesse sulla trachea e lo strangolasse.
«Non ci provare neanche» disse Kyle. «Tanto non serve.»
Una volta nel bagno, lo sollevò di peso e lo infilò nella grande vasca, poi legò le estremità del filo di nylon al rubinetto cromato. Non era strettamente necessario, ma serviva a tenergli alta la testa, in maniera che Kyle potesse vederlo bene in faccia.
«Non ne avevi mai visti così, vero?» chiese, mostrandogli la strana arma che aveva in pugno. «So che lavori sotto copertura da un po’, ma ti assicuro che sono destinati a diventare un must.»
Sembrava un Super Liquidator, un’enorme pistola ad acqua. E, per certi versi, lo era. La scarica di un Taser normale dura al massimo trenta secondi. Quel gioiellino, invece, durava molto di più, grazie al serbatoio da dieci litri che si poteva comodamente indossare come uno zaino.
«Che cosa vuoi da me?» riuscì finalmente a chiedere Siegel, con un filo di voce.
Kyle Craig prese una piccola Canon digitale dalla tasca e cominciò a scattargli foto di faccia e di profilo, prima il sinistro e poi il destro.
«So chi sei, agente Siegel. Cominciamo da qui, okay?»
L’uomo assunse un’espressione confusa, spaventata. «Oddio! Hai sbagliato persona. Io mi chiamo Ivan Schimmel!»
«No» rispose Kyle Craig, continuando a scattargli foto, primissimi piani della fronte, del naso, del mento. «Sei Max Siegel, agente FBI sotto copertura da ventisei mesi. Ti sei infiltrato nel cartello di Buenez e ti sei conquistato la fiducia del boss, tanto che hai cominciato a occuparti delle spedizioni, dico bene? E così, mentre tutti stanno attenti alla Colombia, tu importi eroina da Phuket e Bangkok, facendola arrivare qui a Miami.»
Abbassò la macchina fotografica e lo guardò negli occhi. «Lasciamo perdere il relativismo morale, visto che lo fai in nome della cattura finale. O no?»
«Non so di cosa parli» gridò l’uomo. «Per favore, guarda i miei documenti.» Cominciò a dimenarsi, ma una nuova scarica ad alto voltaggio bloccò sul nascere qualsiasi tentativo di liberarsi. Gli impulsi elettrici colpivano le funzioni motorie e sensoriali del sistema nervoso periferico e che Siegel avesse una soglia del dolore alta o bassa era del tutto irrilevante. Nessuna traccia, peraltro: le munizioni, se così si potevano chiamare, sarebbero finite diritte nella Biscayne Bay attraverso il tubo di scarico della vasca da bagno.
«Un po’ mi dispiace che tu non mi abbia riconosciuto» riprese Kyle. «Ma ti perdono. Ti dice niente il nome ’Kyle Craig’? E ’Mastermind’? È così che mi chiamano al Puzzle Palace di Washington. Ci lavoravo, sai? Ma è passato un po’ di tempo, da allora.»
Negli occhi di Siegel si accese un lampo: aveva capito. In ogni caso, Kyle Craig non aveva bisogno di conferme: era certo di non aver commesso errori.
Anche Max Siegel era un professionista, tuttavia, e non aveva nessuna intenzione di interrompere la messinscena proprio in quel momento. Non era il caso. «Ti prego» implorò, non appena ritrovò la voce. «Non capisco. Chi sei? Non so cosa vuoi da me...»
«Tutto, Max. Voglio tutto da te.»
Scattò ancora una decina di fotografie e rimise in tasca la Canon. «Sei vittima dell’ottimo lavoro che hai svolto, se ti può consolare. Nessuno sa che sei qui, nemmeno l’FBI di Miami. Per questo ho scelto te, fra tutti gli agenti degli Stati Uniti. Sei tu l’eletto, Max. E sai perché?»
Aveva cambiato voce mentre parlava. Era più nasale, adesso, con l’accento di Brooklyn che caratterizzava la parlata del vero Max Siegel.
«Non funzionerà mai! Sei matto!» gridò Siegel. «Matto come un cavallo!»
«Da un certo punto di vista hai ragione, sai?» ammise Craig. «Del tutto normale non sono. Ma ho anche un quoziente intellettivo superiore alla media.» Premette di nuovo il grilletto e, questa volta, lasciò che la scarica elettrica durasse molto tempo.
Siegel sussultò sul fondo della vasca, in preda alle convulsioni. Dopo un po’, soffocò inghiottendo la sua stessa lingua sotto lo sguardo implacabile di Kyle Craig, che studiò ogni dettaglio della sua vittima, e della sua morte, finché non ci fu più niente da imparare.
«Speriamo che funzioni» mormorò. «Non vorrai essere morto per niente, caro Siegel.»