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Quando arrivai in Farragut Square, mi trovai davanti a una scena del crimine tristemente familiare. Non so mai cosa sia peggio, tra lo shock di un omicidio senza precedenti e lo sconforto di rivedere sempre lo stesso scempio.
«Il carrello è decisamente il suo» mi annunciò Sampson. «Ci abbiamo appena trovato questo.»
Mi mostrò il mio biglietto da visita, chiuso in una bustina di quelle usate per conservare le prove. Fu un pugno nello stomaco, per me. Che tragedia.
«Nel carrello ci sono anche macchie di sangue visibili a occhio nudo. E, sul fondo, abbiamo trovato una mazza da fabbro con il manico tagliato. Molto probabilmente è l’arma del delitto.»
«Mi è venuto in mente che vicino al Lindholm c’è un lungo sottopassaggio dove vanno a dormire molti senzatetto» dissi. «Forse è lì che cerca le sue vittime.»
«Può darsi» disse John. «Ma perché poi le porta fin qui? Non capisco. Perché proprio in K Street?»
A parte Anjali Patel – che era stata uccisa da Kyle Craig – le tre vittime del killer dei numeri erano state ritrovate lungo K Street, rispettivamente all’altezza di Twenty-third, Thirteenth e Seventeenth Street: 23, 13 e 17. Tre numeri primi.
Finché si era trattato di due casi soltanto, l’analogia era più difficile da notare, ma con tre saltava subito agli occhi.
Mi chiesi se la lettera K avesse un significato particolare in matematica, ma non mi pareva. E poi, come dissi a Sampson: «Questo è uno psicopatico. L’unica vera costante è questa. Non credo che arriveremo molto lontano, cercando un movente».
«Nemmeno cercando lui» disse John, indicandomi il carrello con il pollice. «Se ha lasciato qui tutta la sua roba, vuol dire che qualcosa è cambiato. Non so cosa, ma penso che non lo rivedremo mai più, Alex. Fine della storia.»