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Avevo promesso alla sezione Dattiloscopia un paio di biglietti omaggio per una partita dei Washington Nationals, se avessero esaminato prima possibile alcune impronte che avevamo raccolto, sperando che ci aiutassero a identificare l’assassino di Pilkey e Vinton. I tecnici mi chiamarono quella mattina per darmi i risultati in tempo record.
L’impronta ritrovata su una zona di vetro che era stata pulita di recente, vicino al buco da cui erano stati sparati i colpi, risultava corrispondere con altre due raccolte nel palazzo, una sulla ringhiera lungo le scale, fra l’ottavo e il nono piano, e l’altra sulla sbarra di apertura della porta di acciaio al pianterreno che quasi certamente era stata usata dall’assassino per uscire.
Era una buona notizia. Se non altro, era interessante. Purtroppo quell’impronta non corrispondeva a nessuna dei milioni di impronte contenute nel database IAFIS. Voleva dire che il presunto assassino non aveva precedenti penali e che non saremmo riusciti a catturarlo per quella via.
Dovevamo percorrere altre strade. Ero stato da poco in Africa, sulle tracce di un assassino che si faceva chiamare la Tigre. A seguito di quelle indagini avevo conosciuto Carl Freelander, della polizia militare, che lavorava con l’FBI nella task force Antiterrorismo a Lagos, in Nigeria. Lo contattai, sperando che mi aiutasse a trovare una scorciatoia nelle mie ricerche.
Era tardo pomeriggio a Lagos, quando lo chiamai sul cellulare.
«Ciao, Carl. Sono Alex Cross. Ti chiamo da Washington. Posso chiederti un favore? Ai convenevoli ci pensiamo dopo, semmai.»
«Possiamo anche lasciar perdere i convenevoli, Alex. Dimmi cosa ti serve.» Ecco perché andavo così d’accordo con lui: aveva il mio stesso modo di lavorare.
«Ho un’impronta che potrebbe essere dell’autore di un duplice omicidio. Dato che il tizio ha sparato alle vittime da duecentotrentanove metri di distanza, presumo sia un professionista e abbia a disposizione attrezzature professionali. Mi chiedevo se non potrebbe essere legato agli ambienti militari.»
«Vuoi che ti autorizzi un controllo sui nostri database?»
«Bravo: hai indovinato.»
«Potrei passare attraverso il CJIS» disse. «Non credo ci vorrà molto tempo.»
CJIS è l’acronimo del Criminal Justice Information Services, che fa parte dell’FBI e ha sede a Clarksburg, West Virginia. Per arrivare a pochi chilometri da casa mia, avevo dovuto telefonare dall’altra parte del mondo. Purtroppo, succede spesso di dover fare così.
Meno di due ore dopo, Carl mi telefonò per darmi una delusione.
«Il tuo uomo non è mai stato nelle forze armate degli Stati Uniti, Alex. E neanche nell’FBI o nel Secret Service. Già che c’ero, ho fatto una ricerca anche sull’ABIS, il sistema di identificazione biometrica della Difesa. Spero non ti dispiaccia. Non è mai stato prigioniero delle forze americane e non è neppure un cittadino straniero che ha avuto accesso alle nostre basi. Non so se questo ti sia di aiuto.»
«Se non altro, mi consente di escludere le ipotesi più ovvie. Grazie, Carl. La prossima volta che vieni a Washington...»
«Ci beviamo una birra assieme. Okay. Mi farebbe molto piacere. Stammi bene, Alex.»
Chiamai subito Sampson per riferirgli tutto.
«Non ti crucciare, Sugar. Siamo solo all’inizio» mi consolò. «Peraltro non è manco detto che quell’impronta fosse proprio dell’assassino. L’altra sera in quel palazzo c’era troppa gente, e non tutti avevano i guanti.»
«Lo so» dissi. Ma mi era venuta in mente un’altra cosa. «E se invece fosse l’impronta dell’assassino, che voleva che noi la trovassimo? Magari gode come un riccio al pensiero di noi che ci danniamo per cercare di capire...»
«No, Alex. No, no, no.» Sampson aveva già intuito dove volevo arrivare.
«E, forte di questa sicurezza, si prepara a colpire di nuovo.»