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Stanislaw Wajda si svegliò e sbatté gli occhi, ma lì per lì non riuscì a vedere niente, se non un chiaroscuro di forme vaghe. Poi, a poco a poco, cominciò a distinguere un muro di cemento, una vecchia caldaia, un pavimento screpolato.
L’ultima cosa che ricordava era di essere entrato nel parco. Sì. Il ragazzo... Quando era stato? Solo ieri sera?
«Salve» disse una voce. Stanislaw trasalì e il cuore cominciò a battergli più forte per la paura.
C’era un uomo con lui. Con i capelli scuri. Vagamente familiare.
«Dove siamo?» chiese Stanislaw.
«A Washington.»
«Volevo dire...»
«So che cosa voleva dire.»
Si rese conto di avere le mani libere, e i piedi anche. Niente catene, né manette. Non se lo aspettava. Abbassò gli occhi e vide che era seduto, accasciato, su una vecchia sedia di legno.
«Non si alzi» gli disse l’uomo. «È ancora intontito.»
Era una faccia conosciuta. L’aveva già visto. Alla mensa del Lindholm. Sì. Con i due detective neri. Sì. Sì.
«È della polizia lei? Sono in arresto?» chiese.
L’uomo ridacchiò. Che strano. «No, Stanislaw. Posso chiamarla per nome?»
La situazione cominciava a chiarirsi, ma era assurda.
«Come fa a sapere come mi chiamo?»
«Diciamo che sono un suo ammiratore» rispose l’uomo. «Ho visto il lavoro che ha fatto in Farragut Square ieri sera e non mi vergogno a dire che mi sono emozionato. È valsa decisamente la pena di venire fin là.»
Wajda sentì lo stomaco che gli si annodava, poi temette di vomitare, o forse di svenire.
«Oh Gesù...»
«Non si preoccupi, non dirò niente a nessuno. Non tradirò il suo segreto.» Avvicinò una sedia e gli si sedette di fronte. «Mi dica una cosa, però, Stanislaw. Cos’è questa storia dei numeri primi? I rapporti della polizia dicono che c’entra l’ipotesi di Riemann. È vero?»
Dunque lo sapeva. Quello strano personaggio sapeva che cosa aveva fatto. A Stanislaw vennero le lacrime agli occhi.
«Sì» rispose. «Riemann. Sì.»
«Ma qual è il nesso? Mi illumini, professore. Muoio dalla voglia di saperlo.»
Era passato molto tempo dall’ultima volta che Stanislaw aveva visto gli occhi di qualcuno accendersi di curiosità. Anni e anni. Una vita...
«Lo zero della funzione zeta di Riemann, come lei sa, è disposto sulla retta critica con parte reale tra zero e uno, se la funzione zeta è pari a zero...»
«No» lo fermò l’uomo. «Senta: a me interessa sapere perché è tanto importante per lei. Tanto da uccidere.»
«Perché è tutto» rispose Wajda. «Trovare la soluzione significa comprendere l’infinito, no? Concepire un quadro così vasto da poter trascendere ogni idea di dimensione e ogni limite...»
L’uomo gli diede un ceffone. «Non mi faccia una delle sue stupide lezioni universitarie, professore. Voglio sapere perché uccide quei ragazzi. Mi sa dare una risposta, sì o no? Non dovrebbe essere difficile: lei è un uomo intelligente.»
Stanislaw si rese improvvisamente conto di poter dare una spiegazione. Sì. Sì. Il risultato finale non dipendeva più da lui. Ormai non c’era spazio che per la verità.
«Per quei ragazzi è meglio essere morti» disse. «Qui non c’è nulla per loro, se non infelicità e sofferenza. Non lo capisce? Non vede?»
«Vedo, vedo.»
«Dio non può fare più nulla per loro, ma io posso ancora aiutarli. Posso dare loro l’infinito» disse. «Posso restituirli a Dio. Capisce?»
«Credo di sì» replicò l’uomo, alzandosi. «Che delusione. Speravo che insieme...» Si interruppe e fece un sorriso. «Be’, lasciamo perdere quello che speravo. Grazie, professore. È stata un’esperienza istruttiva.»
«No. Sono io che ringrazio lei» disse Wajda.
Fu in quel momento che vide il punteruolo. Lo seguì con lo sguardo, mentre l’uomo lo sollevava in alto e di lato, finché non scomparve in controluce davanti alla lampadina che pendeva dal soffitto. Allora Stanislaw alzò il mento e rovesciò la testa all’indietro, allargando le braccia e offrendosi, così che l’uomo non potesse mancare il bersaglio.