104

Caddi di nuovo in ginocchio sulla sabbia. Il mio corpo cominciò a fremere per il dolore. Avvertii una fitta pungente simile a un formicolio, ma più acuta, come se fossi attraversato da una corrente elettrica a basso voltaggio. Non riuscivo a pensare, a vedere. Le onde si frangevano alle mie spalle. Rimasi lì, inginocchiato. Avevo paura a toccare il coltello, e mentre il sangue continuava a uscire cominciai a tremare violentemente.

Prima che potessi formulare anche solo un abbozzo di pensiero, Apt mi sferrò un calcio alla tempia. Indossava scarponi da combattimento con la punta in acciaio, e io crollai subito a terra con la testa che mi fischiava.

«Ecco fatto!» urlò, arretrando per poi mollarmi un altro calcio, questa volta alle palle.

Vomitai. Cominciai a perdere da ogni orifizio. Il dolore arrivava da tutte le parti. Non so come riuscii ad alzarmi, ma ce la feci. Mi misi a correre lungo la spiaggia. Era me che voleva, e io volevo che mi corresse dietro. Dovevo allontanare il più possibile quel bastardo maniaco da mio figlio.

Non avevo fatto neppure una decina di metri che lui mi placcò da dietro. Urlai. Quando ero caduto a terra, il coltello era affondato ancora di più nel fianco. La lama era penetrata in profondità, ora arrivava a sfiorare l’osso.

«Tutto qui?» disse Apt, girandomi sulla schiena e bloccandomi le spalle con le ginocchia.

«Sai cosa sto per fare adesso?» chiese, tirando fuori dalla tasca un oggetto scintillante di colore giallastro.

No, ti prego, pensai. Era un tirapugni d’ottone.

Mi colpì sullo zigomo e io persi i sensi. Quando rinvenni l’osso vicino all’occhio non mi sembrava al suo posto. Avevo l’impressione che anche l’occhio non fosse al posto giusto.

«Questo è ciò che Lawrence voleva. Non che ti sparassi. Né che ti pugnalassi, ma che ti pestassi a morte. Voleva che tu lo provassi, diceva. Voleva che un eroe, una persona davvero buona, capisse cosa si prova a essere come lui, uno zero, una nullità. Quindi non prendertela con me, Bennett. Ricordati, io sono solo il suo ambasciatore.»

Quando colpì di nuovo, mi ruppe la mascella. Il mio viso e il mio corpo erano a pezzi, come un puzzle disfatto.

Sanguinavo copiosamente, ero in uno stato di semi-incoscienza e respiravo a fatica. Mi stavo spegnendo velocemente, come una nave che affonda, quando d’un tratto lo udii.

«Fermo!»

Non sapevo di chi fosse quella voce. Sulle prime pensai che fosse la voce di Dio, poi riconobbi il tono familiare, il timbro, la fermezza. Era la voce dell’autorità che ci avevano insegnato all’Accademia di polizia. Capii che era la voce di un poliziotto. La voce unica di un poliziotto che gridava nella mia solitudine, ed era il suono più dolce che avessi mai udito.

«Rilassati, stiamo solo facendo un po’ di casino tra amici» disse Apt alzando le mani e staccandosi da me.

Poi la sentii di nuovo.

«Fermo!»

Questa era diversa. Stesso tono perentorio, ma un’altra voce. Incredibile. Un altro poliziotto! Era arrivata la cavalleria.

«Fermo, bastardo!» urlò una donna un attimo dopo.

«Hai sentito cos’ha detto. Mani in alto!» urlò un’altra voce.

«A terra, a terra!»

Sentii una litania di voci, un coro. Capii che si trattava dei miei vicini. La polizia di Breezy Point, un reggimento di poliziotti in vacanza accorsi in mio aiuto.

«In ginocchio, pezzo di merda!»

Quello che seguì è un ricordo confuso. Apt urlò, poi si udì un crepitio, anzi una serie di crepitii. Crepitii e scoppi tutto intorno a me come fuochi d’artificio. Mi voltai, affondando il viso nella sabbia come uno struzzo annoiato, e svenni.

«Okay, okay. Avanti, avanti. Tiriamolo su.»

Rinvenni all’improvviso, ancora a faccia in giù, e mi ritrovai a fissare il terreno che scorreva sotto di me. Sentii di avere addosso un gran numero di mani, che mi sorreggevano e mi trasportavano di corsa attraverso la spiaggia. Il viso più vicino al mio era quello di Billy Ginty, il mio vicino, un poliziotto dell’Anticrimine di Brooklyn. Riconobbi un altro poliziotto che aveva la casa nel mio stesso isolato, Edgar Perez, un sergente della polizia a cavallo con un figlio disabile. C’era un tizio grande e grosso con una maglia dei Mets e capii che si trattava di Flaherty. Mi sorreggeva con delicatezza, come se fossi un bambino, tutto rosso in faccia per lo sforzo.

I miei amici e vicini di casa, i miei eroi, stavano cercando di salvarmi la vita.

All’improvviso ci fermammo. Avrei voluto ringraziare Flaherty, scusarmi, ma lui mi zittì.

«Non provare ad andartene proprio adesso» disse. «Ti stanno venendo a prendere con un elicottero. Andrai a farti un giro con l’uccellaccio, fortunato bastardo.»

«Mike, Mike» disse la voce di Mary Catherine da lontano.

Da un punto più vicino a me sentii il pianto di Ricky. Oh, Signore, ti ringrazio. Lui stava bene.

«Ditegli che è tutto a posto. Che sto bene» dissi, o forse cercai di dirlo. Inghiottii del sangue, salato e denso come metallo liquido, e mi sentii soffocare.

«Basta, Mike. Non sforzarti di parlare» disse Mary Catherine, ora accanto a me.

Mi squillò il cellulare.

«Rispondo io. È per me» farfugliai, cercando di prenderlo.

Mary Catherine me lo prese dalla tasca e lo lanciò lontano. Lo fissai piantato nella sabbia, illuminarsi di una luce bluastra e spettrale a tempo con la suoneria che continuava a squillare.

Poi guardai Mary Catherine. Mi ricordai di come mi fosse sembrata incantevole quella sera quando ci eravamo tuffati in acqua. Avrei tanto voluto poterlo rifare in quel momento. Passeggiare lungo la spiaggia, mano nella mano, tuffarci sotto le onde dove tutto era quieto e buio, pieno di pace dentro l’acqua tiepida che ti accarezzava.

Conto alla rovescia: Un caso di Michael Bennet, negoziatore NYP
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