73
Carl attese. In ascolto. Vigile. Dopo un minuto sentì altre radio della polizia e poi rumore di passi che entravano nell’ascensore un piano sotto di lui. Sentì la porta dell’ascensore chiudersi, poi la cabina cominciò a salire con un ronzio meccanico.
Gli parve che stesse per fermarsi al suo piano e strinse ancor più forte la pistola. Ma la cabina proseguì.
Ottimo, pensò. Fino a quel momento era andato tutto liscio.
Quando udì l’ascensore fermarsi da qualche parte sopra di lui, dopo un interminabile minuto, tirò la tracolla della borsa e aprì la porta. Con un balzo si aggrappò alla trave verticale cui era rimasto appeso prima e cominciò a scendere sempre con la tecnica dell’opposizione, più veloce e silenzioso che poté. Superata la porta dell’atrio, coprì con un salto gli ultimi tre metri che lo dividevano dal pavimento della fossa. In un angolo c’era una porticina che dava sul seminterrato. La aprì, uscì e la richiuse velocemente dietro di sé.
Tirò fuori la pistola dalla sacca e corse giù per il corridoio passando accanto a cantine polverose. Oltrepassata la sala caldaia, svoltò e si ritrovò davanti a una porta spessa di metallo. Bussò forte con il pugno una volta, poi un’altra.
Venne ad aprire una ragazza brutta. Carl le puntò la pistola in faccia. La vestaglia lurida era abbastanza aperta sul davanti da lasciar intravedere la farfalla tatuata sotto la clavicola sporca.
«Cosa succede? Chi sei? Noi hai diritto di stare qui» disse lei in un inglese incerto dal forte accento slavo, arretrando davanti alla pistola.
«Io sono un cittadino americano, puttana, a differenza di te. Adesso chiudi quella bocca e spostati» le ordinò Carl.
A lui era bastato vivere sei mesi in quel palazzo per capire che il custode aveva trasformato una delle cantine in un appartamento per clandestini provenienti dall’Europa dell’Est. Era l’odore. Lo aveva sentito una volta che era sceso a mettere via delle valigie nella cantina di Lawrence. Era lo stesso fetore rancido delle salsicce andate a male di quando era nella Delta Force e faceva da guardia del corpo a funzionari del governo durante la guerra in Bosnia.
Aveva capito che il custode dell’edificio era serbo l’attimo in cui lo aveva incontrato. Da come agiva, quell’uomo dallo sguardo furtivo doveva essere in fuga per qualche crimine di guerra. Volevi che ti facesse un lavoretto? Che ti portasse via la spazzatura? Lui si faceva sempre pagare, prima.
In effetti Carl non si sarebbe sorpreso se la ragazza davanti a lui fosse stata effettivamente una puttana, e si prostituisse per pagarsi il costo del viaggio fin lì. E tutto questo nello scantinato di un lussuoso palazzo della Quinta Avenue, rifletté con un ghigno. Economie dentro altre economie. Il capitalismo nella sua forma più estrema. Gli Stati Uniti, la terra della libertà, dove le strade sono lastricate d’oro.
Considerazioni socioeconomiche a parte, quello era il suo nascondiglio. Era arrivato. Lì sarebbe stato al sicuro almeno per le successive dodici ore. La polizia non sarebbe venuta a cercarlo, lì. Considerato che erano in gioco il suo posto di lavoro e il suo visto di entrata nel Paese, il serbo non lo avrebbe mai permesso.
Carl fece cenno alla ragazza di entrare, agitando la pistola, la afferrò per la schiena della vestaglia sudicia e la spintonò in direzione del rumore di una tv.
Dentro la piccola stanza, spinse la ragazza contro un vecchio calvo e pallido con un regale paio di baffoni grigi impegnato a tagliare i capelli con un rasoio elettrico a un adolescente dalla carnagione scura.
«Drago mi je» disse Carl con un sorriso. Significava «piacere di conoscerti», o qualcosa del genere, in una di quelle incomprensibili lingue slave. Era l’unica frase che aveva imparato durante la missione nell’Europa dell’Est.
Il vecchio tricheco rimase letteralmente a bocca aperta. E perché no? Lo shock era la reazione più appropriata nel trovarsi davanti un uomo nudo sporco di grasso che ti puntava addosso una pistola. Carl vide che il televisore nell’angolo trasmetteva una replica di un episodio degli Amici di papà. Una gemella Olsen piccola e preanoressica stava dicendo qualcosa di spiritoso e impertinente.
Carl attese che cominciassero le risate registrate prima di sparare alla nuca della ragazza e gettarla in grembo al ragazzo seduto. Scoprì che il vecchio era battagliero: gli scagliò contro il rasoio ronzante ma lo mancò di qualche centimetro. Carl sentì un suono simile a quello del grasso che sfrigola quando l’oggetto gli schizzò accanto al viso. Con un sorriso sparò al vecchio barbogio in mezzo ai baffoni.
Lo osservò crollare a terra come un sacco. Quando si voltò, vide che il ragazzo era ancora seduto e gli faceva dei gesti imploranti con entrambe le mani mentre la ragazza agonizzante si dissanguava sul suo grembo, scossa dagli spasmi. C’era qualcosa di artistico e di potente in quella scena, un che di tragico nela stanzetta illuminata solo da una lampadina nuda appesa al soffitto, una rivisitazione popolare della Pietà.
«Drago mi je» ripeté Carl e piazzò un proiettile in ognuno degli occhi chiusi del ragazzo.